Cultura | SALTO WEEKEND

Destinazione Heimat

Appunti di viaggio attorno alla mostra Hämatli & Patrae di Nicolò Degiorgis, visitabile al Museion di Bolzano fino al 14 gennaio 2018.
degiorgis_1.jpg
Foto: Foto gadilu

Heimat, in tedesco, è un concetto esorbitante. Assomiglia a uno di quegli scontrini della spesa che credevi di aver gettato via un minuto dopo aver fatto gli acquisti, ma che poi ti ritrovi nella tasca dei pantaloni, dell'impermeabile, in fondo a uno zaino che pensavi di non possedere più. Anche a distanza di mesi, di anni, impossibile liberarsi di quello scontrino. Di Heimat si muore (Norbert C. Kaser) e di Heimat si vive (Eva Klotz). Ci si può liberare della propria Heimat solo se siamo capaci di trovarne un'altra, perché chi resta sospeso una condizione di Heimatlosigkeit non viene capito e non viene ascoltato. “Heimatlosigkeit muss nicht falsch sein”, ha scritto Ilija Trojanow (Nach der Flucht), ma ecco spuntare chi già sta provando a convincerci del contrario, invitandoci a rivelare quale sia, dove sia la nostra Heimat.

La strategia adottata da Nicolò Degiorgis per la mostra Hämatli & Patrae – visitabile al Museion di Bolzano fino al 14 gennaio 2018 – punta sulla dissipazione di quel riferimento tanto ossessivo. Persino il facile schema con il quale l'esibizione è introdotta (“Qui globalizzazione e immigrazione fanno emergere tutta la fragilità delle democrazie e dei valori liberali, mentre spinte populistiche destabilizzano i fondamenti politici e sociali”) diventa il semplice cartiglio sul retro del quale chiunque potrebbe scrivere qualsiasi altra cosa, persino di senso opposto. La direttrice del Museion, Letizia Ragaglia, ha avuto quindi buon gioco nell'affermare che l'intento “politico” dell'esibizione è in fondo immanente a qualsiasi “statement” prodotto in un luogo d'arte: se tutto è politico niente lo è, e ogni cosa può tranquillamente assumere il profilo delle famose vacche che pascolano nella notte dell'assoluto.

Per tenermi aggrappato a qualcosa di dicibile (per non dover cioè sconsolatamente concludere che ogni “dicibile” altro non è che l'orlo di un “indicibile” che lo logora e lo inghiotte), ho telefonato a Degiorgis per farmi consegnare il suo personale filo d'Arianna. Degiorgis è un fortunato nomade che segue i suoi progetti in giro per il mondo. Quindi il mio primo messaggio lo raggiunge all'aeroporto di partenza, il secondo quando è sceso dall'aereo, il terzo lo intercetta finalmente nel luogo provvisorio della sua destinazione: Amsterdam. Ecco, quasi stenografate, le cose che mi ha detto quando abbiamo potuto parlare.

Essendo nato a Bolzano ho sempre avuto un occhio di riguardo sulle dinamiche che mettono capo a una riflessione sui gruppi, diciamo che questo è il mio retaggio altoatesino. Qui ho voluto porre al centro della mostra il concetto di Heimat, coinvolgendo però artisti che non fossero legati necessariamente al mondo migratorio. In effetti ne è scaturito qualcosa di profondamente eterogeneo, volutamente spiazzante. Per leggere l'esposizione si può utilizzare la mappa che si trova all'uscita, ossia quell'arca di Noè che in un certo senso rappresenta il punto di arrivo dell'inizio, la grande nave Vlora attraccata al molo del porto di Bari e ricolma degli immigrati albanesi che giunsero in Italia nel 1991. Ogni opera scelta è in dialogo con un'altra, ne fornisce un commento allegorico o una contestazione. Tutto è in dialogo con tutto, tutto è dialogico. Ho cercato anche di alleggerire un po' la pressione che da queste parti il tema dell'Heimat ha sempre avuto. Noi non siamo troppo diversi da altre regioni del mondo, specialmente da altre zone di confine. L'idea di fondo è questa: si sbarca in una mostra come si sbarca in un paese straniero, bisogna insomma cominciare ad orientarsi, a scegliersi dei personali punti di riferimento. Come fanno i bambini quando entrano in una stanza che non hanno mai visto. E devo dire che l'approccio infantile, connesso a una certa idea di didattica, è quello che prediligo”.

Degiorgis mi invita ad andarlo a trovare quando rientrerà a Bolzano (cosa che accetto volentieri). Poi mi chiede la mail e mi promette di inviarmi le schede esplicative delle opere – quelle che i visitatori trovano stampate vicino ai manufatti. Dopo due giorni arriva la mail. Priva di allegato, però. Forse la Heimat dialogica proposta dalla mostra è anche questo: un colloquio cordiale che distilla comprensione da una incomprensione di fondo, domande che ricevono altre risposte, spiegazioni che vengono solo promesse, e quindi rimangono sospese (mi viene in mente che l'opera in grado di catturare di più la mia attenzione è un piccolo acquario nel quale una penna di gallina fluttua quasi impercettibilmente: “You float like a feather, in a beautiful world...”). Un po' come chi decide di fare un viaggio, ma non sa se arriverà, quando arriverà, come arriverà e, soprattutto, se capirà mai il luogo in cui sarebbe dovuto arrivare.