Cultura | VIAGGIO ALL'indietro

Le sliding doors dell’Autonomia

Sessant'anni fa l’Alto Adige era sull’orlo della guerra civile. Una serie di eventi - compreso un convegno - e alcune persone illuminate evitarono la deriva "algerina".
Magnago, Battaglia, Menapace, Farias Convegno del Mulino . Prima pagina dellAlto Adige
Foto: Alto Adige

Dopo per aver letto il libro di cui andrò a scrivere, sull’onda di un entusiasmo per le questioni istituzionali di questa terra che non provavo da decenni, una notte il mio subconscio, in uno di quei momenti in cui non si è sicuri di stare dormendo o di essere svegli, ha mostrato me stesso fuori dal consiglio provinciale con altre persone che non conoscevo, sorridente e fiero, davanti alla scritta gigante “Grazie 1961”. Sullo sfondo, la gigantografia di una copertina nera e bianca di un volume dal titolo UNA POLITICA PER L’ALTO ADIGE. Uno pseudo-sogno imbarazzante nella sua ingenuità, frutto evidentemente di una miriade di sentimenti contrastanti e questioni irrisolte legate al vivere in questo luogo dalla storia non lineare.

 

Da quando a giugno, nei giorni precedenti il Sessantesimo anniversario, intervistai lo storico Leopold Steurer sulla Notte dei fuochi e mi prestò gli atti originali, praticamente introvabili, di “un convegno del Mulino che in pochi ricordano” (ne ha scritto Maurizio Ferrandi domenica scorsa), sono stato quasi inghiottito da uno Stargate. Lo pseudo sogno fu sicuramente originato da una sorta di rapimento intellettuale per la lettura entusiasmante e dalla rabbia nel vedere, in quei giorni, che in questa terra c’è ancora chi va in giro con cartelli “Danke 1961” e gongola nel ripensare al clangore dei tralicci che si schiantano al suolo. Come se si trattasse di un film. E come se quello non fosse stato l’orlo del baratro, il passo precedente allo scoppio di una guerra civile che avrebbe potuto causare migliaia di vittime. Bastava un niente, un militare gradasso che si facesse prendere la mano, o un colpo di arma da fuoco partito per sbaglio. Il ministro dell’interno Mario Scelba, pupillo di Don Sturzo, anni dopo conosciuto per l’uso abbondante della Celere per reprimere le manifestazioni di piazza “comuniste”, scelse una linea repressiva dura ma, nonostante gli attentati continuassero, aprì da subito anche al dialogo. Tanto che pochi mesi dopo si concretizzò il piccolo grande miracolo istituzionale rappresentato dalla nascita della Commissione dei Diciannove. E la sollevazione popolare voluta dai terroristi non ci fu.

Quello che a volte non viene ricordato con sufficiente chiarezza è che l’Italia democristiana del Dopoguerra era uno Stato iper centralista. Le Regioni erano previste nella Costituzione dal 1948 ma divennero operative solamente nel 1972 contestualmente al Secondo statuto (l’elezione dei primi consigli regionali è del 1970). La Regione Trentino Alto Adige, con un forte sbilanciamento dei poteri su Trento, era comunque operativa già con il primo Statuto del 1948, e la Provincia di Bolzano, pur con poche competenze, era a sua volta già operativa. Quindi, nell’ottica della destra Dc il territorio regionale godeva già di una situazione di favore rispetto al resto d’Italia. E’ di fatto solo il nuovo clima politico che si instaura con il centrosinistra di Aldo Moro a favorire il dialogo per la stesura del Secondo statuto e, a livello nazionale, per l’attuazione della Costituzione in chiave regionale.

Come un Marty McFly de noantri

Da quando ho letto gli atti del convegno del Mulino mi sento un po’ come si deve sentire un sub che ritrova sul fondo del mare un forziere pieno di perle ma non sa bene come riportarlo a riva. Il mondo, mi vado ripetendo in modo compulsivo, deve conoscere questo distillato di intelligenza, saggezza, preveggenza. Come se potesse davvero importare a qualcuno di un evento culturale di sessant’anni fa. Ma per condividere almeno in parte “la maraviglia”nei prossimi giorni pubblicheremo su salto.bz alcuni degli interventi più significativi. Per chi desiderasse approfondire un’abbondante selezione è stata pubblicata in copia anastatica all’interno del volume Un’idea esagerata di autonomia, a cura di Giorgio Delle Donne, meritoriamente pubblicato da Alpha Beta cinque anni fa.

Potendo leggere una copia originale sgualcita del volume, come una specie di Marty McFly de noantri l’estate scorsa per alcune settimane sono salito sulla DeLorean e mi sono fiondato all’indietro nel tempo a quei mesi di 60 anni fa in cui fummo in bilico tra l’abisso della guerra “alla algerina” sognata dai Freiheitskaempfer e un faticoso percorso di dialogo. L’ho fatto nell’unico modo possibile: leggendo giorno per giorno le edizioni dei quotidiani dalla primavera alla fine dell’anno 1961. Per la comunità italiana l’Alto Adige a quel tempo era l’unico mezzo di informazione a disposizione. Non c’era altro. I giornalisti combattevano una guerra ideologica di trincea con un taglio nazionalista che ricorda molto da vicino i giornali della destra di oggi. Il Dolomiten, come si è visto, con Toni Ebner aveva una linea “dialoghista” ma allo stesso momento molto spinta nella difesa della minoranza. Erano altri tempi, non c’è dubbio, ma leggere i giornali di quei mesi mette ansia ancora oggi. Si era in piena corsa agli armamenti, un giorno sì e un giorno no si dava conto degli esperimenti nucleari americani e russi e si faceva la conta dei morti in Algeria.

Se già prima della Notte dei fuochi il giornale in lingua italiana sparava sulla giunta Magnago quasi ogni giorno, dopo la Feuernacht il leader della Stella alpina diventa un mostro mangia-italiani al quale sotto-sotto gli attentati non dispiacevano. A volte sorprende la durezza dei toni usati, ma tutto è di fatto coerente con l’immagine che ho sempre avuto della mia terra fino alla fine degli anni 80 (sono nato nel 1971) quando mi vergognavo di provenire dalla regione più a destra d’Italia: una sfida infinita tra due nazionalismi a confronto. Essendo tendenzialmente da sempre un critico delle storture dell’autonomia (sistemi scolastici sideralmente separati, proporz troppo rigida) credo di non aver mai valutato appieno il lavoro che alcune persone avevano incredibilmente iniziato a fare già nel 1961, sedendosi attorno ad un tavolo mentre il mondo “là fuori” procedeva tra tralicci abbattuti e perquisizioni che assomigliavano a rastrellamenti, tra raffiche di mitra sugli edifici delle forze dell’ordine e torture “sudamericane” in carcere. Pur restando perplesso rispetto alla mancata evoluzione dell’autonomia questo pezzo è un tentativo di rendere merito a quelle persone.

 

Leggendo e rileggendo quelle carte mi è venuto in mente il film Sliding doors che racconta i possibili destini di una donna a seconda che in un dato momento riesca o no a salire su un treno della metropolitana. E’ vero, il giochino non funziona con la Grande storia. Il mio prof del liceo ripeteva che “la storia non si fa con i se e con i ma”. Vero. Però è indubbio che vi siano dei momenti topici in cui gli eventi prendono una direzione piuttosto che un’altra per una serie di circostanze anche fortuite.

Se in Alto Adige fosse scoppiata una guerra civile, gli storici del futuro ne avrebbero forse individuato la classica scintilla nella Notte dei fuochi del 1961. Non vi è dubbio che l’ala estremista del BAS puntasse a fare il Gavrilo Princip (il nazionalista serbo che uccise l’arciduca Franz Ferdinand) della situazione. Per mesi, forse per almeno un paio di anni, il rischio di un vero bagno di sangue è sempre stato incombente. Come per la tragica macelleria di inizio secolo, le vere ragioni del conflitto sarebbero risiedute altrove, in particolare nello sbilanciamento trentocentrico del primo Statuto. Ma nonostante ci fossero tutte le premesse in Alto Adige il conflitto non esplose e la mini-guerra fredda che seguì l’approvazione del secondo statuto nel 1972, durò un ventennio, fino al 1992 e cioè fino alla firma della quietanza liberatoria da parte di Vienna. Se potesse esistere, al di là del gioco intellettuale, il giorno in cui non scoppiò la guerra potrebbe essere forse identificato con il primo settembre 1961, la data di convocazione della Commissione dei 19. L’inizio del dialogo. Dopo il ‘61, come noto, la svolta filonazista dei terroristi sfuggiti alle retate portò  anche ad attentati spietati e questi 19 personaggi, imperterriti, continuarono a trattare. Oggi la si ritiene una cosa scontata, ma se ci pensa bene, non lo fu affatto.

I protagonisti del disgelo

Comunque, se oggi possiamo gioire della pacifica, a volte sospettosa, coesistenza di più culture nello stesso territorio lo si deve principalmente ad alcune persone. “Chi salva la situazione – disse Steurer nell’intervista di giugno - è presto detto. Il vescovo Gargitter con la sua lettera pastorale del 1960 ebbe un’influenza molto forte se si pensa a quanto sono ramificate le organizzazioni cattoliche in Sudtirolo. A livello politico va reso invece grande merito alla figura carismatica di Magnago, che ha richiamato la popolazione alla calma. Ed anche il Dolomiten con Toni Ebner era contro il bombaroli e pure questo influì molto. Dall’Austria, infine, anche Kreisky chiedeva di astenersi da ogni forma di violenza”.

Leggendo i documenti di quegli anni emerge, in modo prepotente, anche il ruolo chiave svolto dalla sinistra dc (Berloffa, Menapace, Farias) e poi anche da dorotei doc come Flaminio Piccoli, da parte italiana, e, da parte tedesca, oltre che il sempre arcigno Silvius, a fare da sponda fu l’opposizione interna all’Obmann di ferro che firmò il famoso manifesto uscito il 30 settembre 1961 sul Dolomiten, del quale si è già scritto. In quella tarda estate dell’anno più buio, Berloffa pensò di agire su due livelli, quello politico istituzionale nella commissione e poi quello culturale. Bisognava smuovere le coscienze attraverso le idee oltre che siglare accordi, altrimenti si sarebbe andati poco lontano.  Per questo il deputato e leader locale della corrente guidata da Aldo Moro, prima affidò le redini del partito a Giuseppe Farias e Lidia Menapace. E poi spinse per la realizzazione del convegno del Mulino. Leggendone gli atti si potrà appurare che il livello dialettico di buona parte degli interventi, come si vedrà, è talmente profetico, colto e sagace che sembra di respirare a pieni polmoni aria fresca ed invece è di 60 anni fa.

La cosa davvero incredibile è che in quelle 236 pagine finite di stampare a Bologna nel 1962 c’è, concentrato, quasi l’intero dibattito sull’autonomia fino ai nostri giorni. C’è, snocciolata punto per punto nella prima relazione di Magnago, l’autonomia esattamente come la conosciamo oggi (e la Commissione dei 19 aveva a quel punto fatto solo poche sedute). Viene prefigurato – dai relatori Svp e dagli altri democratici-  il futuro “disagio degli italiani” in quanto “minoranza territoriale” quando ancora si doveva iniziare a scrivere la prima riga del Secondo statuto che arriverà 10 anni dopo e sarà considerato attuato solo 30 anni dopo. Ci sono i falchi Svp che fanno i falchi Svp, ma si mostrano coscienti dell’arretratezza culturale della popolazione prima “bastonata” dal Fascismo e a quel tempo votata per il 70% all’agricoltura. C’è un Andrea Mitolo ancora talmente fascista da risultare imbarazzante probabilmente pure per i suoi seguaci del terzo millennio. Ci sono gli esponenti della sinistra dc berloffiana, Lidia Menapace e Giuseppe Farias, che volano altissimo. Viaggiano letteralmente oltre la velocità del suono Altiero Spinelli (proprio lui, l’uomo considerato tra i fondatori dell’Unione europea), il filosofo Umberto Segre e ancora di più il filologo Ezio Raimondi, che con una raffica di citazioni colte di autori austriaci, mette dialetticamente al tappeto i relatori di lingua tedesca (il suo intervento manca nell'edizione di Alpha Beta). Usando una metafora platonica che parrà un filo esagerata, verrebbe da dire che in quei due giorni hanno preso forma le idee pure tutt’ora custodite nell’iperuranio dell’autonomia.

 

I giorni di convocazione del Convegno sono tutto un programma: 4 e 5 novembre 1961. Gli organizzatori, sprezzanti del pericolo, scelgono cioè la data, ancora oggi controversa, dell’anniversario della “Vittoria” della Primaguerra mondiale. Proprio così. Mentre la città era invasa da militari italiani marcianti sotto il Monumento, nell’aula del Consiglio provinciale si celebrava il primo momento di dialogo pubblico tra esponenti politici sudtirolesi e luminosi esponenti della cultura cattolico democratica italiana. “Il 4 novembre – dice a questo proposito Altiero Spinelli – dovrebbe essere considerato, se noi fossimo persone serie, data di lutto per noi e data di lutto per gli austriaci, una delle varie date  della atroce guerra europea dei 30 anni … Ora credo che in questo incontro noi ci dovremmo proporre di contribuire a mettere una pietra sopra a quel che ha significato di malefico per noi e per gli altri il 4 novembre e di cominciare a realizzare modi di vita differenti. Il problema dell’Alto Adige è anche un problema di liquidazione di questo nostro troppo accentrato apparato statale, di dare a chi vuole amministrare sul posto e sa amministrarsi meglio che da lontano, la possibilità di farlo”.

La chicca di Chabod

Ma come chicca finale mi sembra corretto pubblicare la frase in epigrafe agli atti del convegno, tratta da una lettera dell’autonomista valdostano Federico Chabod a Ugo La Malfa, allora partigiano azionista e poi fondatore del partito repubblicano. La data della missiva fa spalancare la bocca dalla meraviglia: 10 ottobre 1944. Sibilavano ancora le bombe, ma quelle della Seconda guerra mondiale.

Sembra a me che sarebbe bello e nobile da parte della nuova Italia iniziare, per prima in Europa, una politica di larga libertà nelle sue zone di frontiera, in quelle zone cioè dove i vecchi nazionalismi europei avevano sempre fatto sentire più duramente il loro peso, facendo così di quelle strisce estreme dei territori statali degli inevitabili punti d’attrito, dei fatali focolari d’irredentismo, pretesto e motivo poi facile per le guerre e le avventure nazionalistiche. Noi dobbiamo farne invece degli anelli di collegamento tra una nazione e l’altra, dei ponti di passaggio su cui s’incontrino gli uomini dei vari paesi e imparino a smussare gli angoli, a lasciar cadere le differenze, a deporre la boria delle nazioni. (F. Chabod).

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Massimo Mollica Mer, 11/03/2021 - 14:24

Questo articolo mi ha creato un'inusitata eccitazione nelle figure illuminanti citate, che hanno permesso questa situazione (e di fatto le premesse della mia nascita e benessere). Ma anche una pressante tristezza nel constatare che nel mondo è difficile trovare statisti/e altrettanto all'altezza.
Viviamo in una democrazia che per sua natura è fragile e circondata sempre di più da realtà più protezioniste e sempre meno democratiche. Oggi il problema è il lupo domani potrei essere io (chi lo sa). E intanto i "cugini" oltre confine chiedono insistentemente un muro contri i "poveracci" e si distinguono per non firmare riduzioni nell'utilizzo del metano (perché i problemi degli altri rimangono degli altri).
Uno dei miei tanti rammarichi è che questa ricchezza nata dal confronto di persone diverse (è il confronto che risolve sempre i problemi, viceversa se ne creano di nuovi), e che ha portato all'autonomia, è che non si sia esportata nel resto d'Italia. Che si pensa tanto diversa da noi ma in realtà è il frutto di centinaia di contaminazioni che hanno creato una ricchezza culturale unica al mondo. Questo non l'hanno capito in primis gli altoatesini che beneficiano dell'autonomia.
Perché se c'è una cosa che il Covid ha rafforzato in me, è che non esistono confini e che siamo tutti umani e fragili, e quindi uguali, indipendentemente dalla lingua e dal dio in cui crediamo.

Mer, 11/03/2021 - 14:24 Collegamento permanente