Cronaca | Dal blog di Massimiliano Boschi

Quel giorno alla stazione di Bologna

Sono passati 33 anni dalla strage di Bologna. Un articolo di Massimiliano Boschi - apparso originariamente su "Diario della settimana" del 29 luglio 2005 - riflette su alcuni simboli che sono rimasti indelebili.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: (Foto: salto.bz)

Il 2 agosto 1980 la stazione era probabilmente il luogo più affollato della città. Era il primo sabato d’agosto e i bolognesi stavano partendo per le vacanze. Molti lo avevano già fatto e le strade erano pressoché deserte, mentre i binari e la sala d’attesa del nodo ferroviario più importante d’Italia erano affollatissimi. In quegli anni la stazione centrale di Bologna era una piazza della città: c’erano l’edicola, il tabaccaio e il ristorante, aperti fino a notte inoltrata e ci si andava anche solo per vedere facce nuove e scambiare quattro chiacchiere. Davide Damiani ci stava andando per ritirare una raccomandata, Agide Melloni per prendere servizio su un autobus. Alessandro Viglietti, ferroviere, si stava recando sul luogo di lavoro e un suo collega, Claudio Baccianti, c’era già. Qualcun altro, invece, si stava allontanando dopo avere lasciato, in una stracolma sala d’attesa di seconda classe, una valigia contenente più di 20 kg di esplosivo. 


Agide Melloni stava incamminandosi verso la stazione per iniziare il turno come autista dell’Atc, l’Azienda dei trasporti comunali. "Passeggiavo con un collega quando abbiamo sentito un botto violentissimo. Dopo pochi minuti abbiamo bloccato un autobus proveniente dall’area da cui sembrava arrivare il rumore e abbiamo chiesto a un collega cosa era successo. Ci disse che era saltata per aria la stazione". Il suono ripetuto e continuo delle sirene annunciò alla città che il rumore non era dovuto a un aereo che aveva superato il muro del suono. La stazione sorge sui viali di circonvallazione e la notizia si sparse quindi rapidamente per tutta la città. Si pensava all’esplosione di una caldaia. Ma ad agosto? Agide arrivò in stazione praticamente correndo, in ansia per i colleghi. "Ci ritrovammo davanti a uno scenario che, soltanto ora, si può immaginare. Raggiunto il piazzale antistante la stazione cercammo subito di aiutare i feriti e di prestare i primi soccorsi. Un collega, Guglielmo Bonfiglioli, propose di trasportare all’ospedale Maggiore i feriti meno gravi con un autobus: il numero 37". In effetti, le ambulanze sembravano non bastare, alla fine si contarono circa 200 feriti, 13 di loro sono sottoposti a terapie, a 25 anni di distanza. "Poi", prosegue Melloni, "ci accorgemmo del numero di salme già estratto dalle macerie, il caldo era atroce e pensammo quindi di trasportare i cadaveri a bordo dell’autobus per lasciare tutte le ambulanze a disposizione dei feriti. Togliemmo dalle porte i mancorrenti, le sbarre a cui ci si aggrappa per salire, e io mi misi alla guida. Erano circa le 11 di mattina, fino al pomeriggio trasportai le salme alla camera mortuaria di via Irnerio, poi, quando non ci fu più posto, ci dirigemmo verso gli obitori degli ospedali. Restai alla guida fino alle tre di notte, con me a bordo salirono a turno, vigili o poliziotti, mentre l’autobus viaggiava scortato davanti e dietro da polizia e carabinieri". A un certo punto vennero collocati ai finestrini dell’autobus delle lenzuola a mo’ di tende, per evitare sguardi indiscreti. 


Quell’autobus, "il 37 con le lenzuola ai finestrini", divenne il simbolo dell’impegno della città per i soccorsi. Nel frattempo, infatti, era scattata una spontanea mobilitazione. Davanti agli ospedali si era formata la fila di chi voleva donare il sangue, talmente lunga che i medici invitarono molti a tornare a casa. Gli infermieri e i dottori tornarono spontaneamente dalle ferie, gli ottici misero a disposizione degli occhiali per coloro che li avevano rotti a causa dell’esplosione. Tutti si chiesero come poter dare una mano, anche per controllare la rabbia che saliva in corpo mentre andava diffondendosi la notizia che non era scoppiata nessuna caldaia. L’odore di esplosivo era stato riconosciuto da tutti quelli che avevano subito un bombardamento aereo nel 1944 e, a Bologna, nel 1980, erano ancora parecchi. Davide Damiani non era ancora un collega di Agide Melloni, ma sperava di diventarlo presto. Aveva fatto domanda per il concorso: "Dovevo andare a ritirare una raccomandata all’ufficio postale della stazione. Pensavo fosse la risposta alla mia domanda, ma era il 2 agosto e quando arrivai la bomba era appena scoppiata". 
Damiani fece il concorso a settembre e venne assunto. Ora è il responsabile della collezione storica dell’Atc che ha sede in via Bigari, non lontano dalla stazione e custodisce quindi l’autobus 37 che Melloni guidò fino a notte inoltrata. "Un modello Fiat 421/a costruito nel 1973 da Fiat Menarini che ricevette il numero di servizio 40/30. È rimasto in servizio regolare anche dopo il 1980, fino al 1999. Prima di essere collocato nel museo è stato ridipinto con i colori del 1980: il rosso e il giallo che tutti in città ricordano. Non è un mezzo “marciante”, è il pezzo più amato della collezione storica e non è un’icona da portare in giro. L’avrò già mostrato centinaia di volte, ma quando racconto la storia di quel mezzo fatico, ancora, a non commuovermi". 


I due orologi. 
L’altro simbolo della strage è l’orologio posto proprio sopra l’ala dell’edificio fatta crollare dall’esplosione e fermatosi alle 10,25 del 2 agosto. Alessandro Viglietti, però, se pensa a un orologio collegato alla strage, pensa al suo. L’esplosione glielo aveva strappato di dosso e nel suo ufficio di capo reparto di Bologna Centrale ha appeso il verbale di riconsegna della polizia ferroviaria che lo ritrovò tra le macerie della stazione dopo due settimane. "Previo riconoscimento gli viene consegnato un orologio da polso da uomo, di metallo bianco, marca “Perseo” matricola 161.718 che lo stesso Viglietti ha riconosciuto tra gli oggetti recuperati nel noto disastro ferroviario. (…) Il Viglietti, al momento dello scoppio, si trovava sul primo marciapiedi di questa Stazione C.le, all’altezza dell’edicola giornali e Dirigenti Movimenti, che in seguito a ciò cadde a terra e che dopo essersi rialzato ha guadagnato l’uscita unitamente ad altri viaggiatori". Il verbale minimizza alquanto: il "noto disastro ferroviario" è la maggiore strage terroristica compiuta in Italia, e Viglietti "cadde a terra" perché fu colpito in pieno dallo spostamento d’aria dell’esplosione, trovandosi a poche decine di metri dalla sala d’attesa di seconda classe. "Ho appeso quel verbale", racconta, "perché solo leggendolo mi sono accorto di quanto ero stato fortunato. Lo spostamento d’aria mi aveva strappato l’orologio da polso, la camicia e i pantaloni lungo le cuciture, modello gaucho argentino. Erano morte 85 persone e io me l’ero cavata solo con qualche graffio. Ero arrivato in stazione solo pochi minuti prima, visto il caldo avevo lasciato giacca e borsa sul treno 4990 che mi avrebbe portato a Nogara. Era il treno, diretto a Verona, che ci caricava tutti a Bologna e ci scaricava nelle varie stazioni per il cambio di turno. Passai a salutare alcuni colleghi all’Ufficio movimento, presi il giornale e, mentre stavo per recarmi al bar, venni investito dall’esplosione. Fui trascinato indietro sulla schiena per alcune de- cine di metri a causa dello spostamento d’aria. Dei momenti successivi ricordo un grande silenzio e un collega, Baccianti, che mi corse incontro per abbracciarmi. Poi la concitazione dei soccorsi e Smalti, un altro ferroviere, che distribuiva i feriti a seconda dei traumi verso le varie ambulanze. Dopo circa un’ora, ma non sono sicurissimo dei tempi, presi la macchina insieme a un collega e tornai a casa. Lì imparai che mio padre era venuto a cercarmi. A piedi. Era partito da Casalecchio di Reno, una cittadina a una decina di chilometri dalla stazione di Bologna, era un uomo di una volta, di quelli che si vergognavano a mostrare le emozioni e gli affetti, quel suo incamminarsi per venirmi a cercare è rimasto per me un gesto indimenticabile, di grande amore. Nel primo pomeriggio, arrivato a casa, mi cambiai, feci un bagno veloce e tornai al lavoro in auto. Alle 16 ero in servizio a Nogara, tre ore dopo mi raggiunse il treno 4990. Mi ripresi la giacca e la borsa che avevo depositato la mattina". Lo dice con l’orgoglio del ferroviere, perché l’arrivo del treno significava che nonostante quello che era successo Bologna centrale, dopo poche ore, era nuovamente in funzione. 


L’abbraccio.
Claudio Baccianti, l’uomo che corse in contro a Viglietti abbracciandolo, ai tempi era dirigente esterno di sussidio. Le immagini che vide subito dopo lo scoppio non lo fecero dormire per settimane. "Venni richiamato in servizio, nonostante fossi di riposo, per aiutare a gestire la ventina di treni straordinari in partenza la mattina del 2. Come d’abitudine, eravamo andati a prendere dei panini al bar della cooperativa portabagagli. Fu uno di quei panini a salvare un mio collega, mi pare si chiamasse Ruggeri. Doveva recarsi al binario uno per far partire un treno, quello che venne investito in pieno dall’esplosione, ma avendo ancora un po’ di tempo, decise di non uscire dal sottopasso che sbucava fuori al primo binario, sotto la sala d’attesa, ma di prolungare la strada e uscire da quello del piazzale ovest per venire a mangiare con noi. Questo gli salvò la vita. Aprì la porta del nostro ufficio ed entrò intimando: “Nessuno mangi il mio panino”". "In quel momento esplose la bomba. Finimmo tutti per terra, io uscii di corsa, tra il fumo e una forte puzza di zolfo, aiutai Viglietti a rialzarsi e vidi quello che non avrei mai più dimenticato. I soccorsi furono rapidissimi, tra i feriti soccorremmo anche il sindaco di una cittadina svizzera. Questi, per anni, ci fece recapitare, tramite un suo concittadino, un ferroviere svizzero che svolgeva servizio sulle cuccette, sigari e cioccolata per ringraziarci".

Massimliano Boschi (tratto da “Diario della settimana” del 29 luglio 2005).