Le vite lungo la rotta balcanica
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Documenti stracciati, scarpe, zaini, giubbotti di salvataggio, medicine, smartphone distrutti, filo spinato, tende, giocattoli: sono solo alcuni degli oggetti raccolti in Serbia, Bosnia Erzegovina, Croazia, Grecia, che compongono il percorso esperienziale Panta Rei. Vite migranti lungo la rotta balcanica, a cura di Anna Clementi e Diego Saccora, attivisti dell’Associazione Lungo la rotta balcanica.
Attraverso l'uso di oggetti, foto, storie, suoni e video, l'installazione racconta i diversi aspetti del viaggio che le persone sono costrette a intraprendere per raggiungere l'Europa. Si tratta di una vera e propria esperienza sensoriale che permette di addentrarsi dentro la rotta balcanica, ricalcando le principali tappe del viaggio via terra di chi – dal Pakistan, dall'Afghanistan, dalla Siria, dall'Iraq, ma anche dal Kosovo, dal Marocco, dall'Algeria, dal Congo e dal Camerun - cerca di raggiungere l'Europa. “Inseriti nel loro contesto storico e geografico, gli oggetti sono determinanti per capire chi sono le persone in movimento e per segnarne le traiettorie”, afferma Diego Saccora. Un foglio di via della polizia slovena in territorio bosniaco o una scheda sim greca al confine croato, per esempio, indicano che una persona è tornata indietro attraversando due Paesi. Una bambola raccolta vicino al confine greco-albanese rivela che lungo la rotta passano anche bambini.
A segnare l’inizio di Panta Rei è una pagina di giornale ingiallita dagli anni. “L’invasione della Croazia. L’esercito sferra l’offensiva finale”: così titolava l’edizione de “La Repubblica” del 15-16 settembre 1991. La Storia della rotta balcanica nasce da lontano, dunque, e in essa la guerra in Iraq si lega al conflitto jugoslavo, fino a intrecciarsi con il passaggio delle persone in movimento dell’ultimo decennio. Ed è proprio il quadro storico il primo approfondimento della mostra che consente ai visitatori di contestualizzare il carico emotivo di video, foto e oggetti esposti: dal corridoio legalizzato del 2015 che ha portato all’ingresso regolare di centinaia di persone nei Paesi dell’Unione Europea (soprattutto Germania) agli accordi tra la stessa Ue e la Turchia che ha sigillato i confini degli Stati e ha favorito l’esternalizzazione delle frontiere, per arrivare all’istituzione di campi in Grecia, Serbia e Bosnia.
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"Parlando di migrazione è obbligatorio parlare di libertà di movimento”, mette in chiaro Saccora. Per questo Panta Rei dedica un approfondimento prezioso ai passaporti “potenti” e a quelli “deboli”. La possibilità di movimento dei cittadini dei diversi Paesi, infatti, è determinata dal valore del passaporto che detengono. A indicare l’ordine dei passaporti dei 199 Paesi riconosciuti nel mondo sulla base del loro valore è la classifica di Passport Index. Ai primi posti ci sono Paesi economicamente e politicamente potenti. Chi possiede un passaporto italiano – al secondo gradino del podio insieme ad altri 10 Stati –, per esempio, può accedere a 174 Paesi senza bisogno di alcun visto o richiedendolo una volta arrivato a destinazione, mentre i Paesi in cui vi è un conflitto in corso – Yemen, Somalia, Siria – si trovano agli ultimi posti della graduatoria. Ultimo è l’Afghanistan, i cui cittadini devono fare richiesta di visto prima di poter entrare in 160 Stati esteri. Saccora sottolinea che “questa breve panoramica è indice della diseguaglianza di fondo che porta persone a spostarsi dove, come e quando vogliono, mentre altre che hanno necessità ed esigenze impellenti non lo possono fare”. Senza un documento che permette il passaggio delle frontiere ufficiali, le persone provano a superare i confini attraverso vie illegalizzate e sono sottoposte a un rischio costante. La morte è uno spettro che aleggia lungo tutte le rotte migratorie. Negli ultimi dieci anni più di trentamila persone hanno perso la vita nel Mediterraneo e anche la rotta balcanica ha prodotto centinaia di morti. “Queste persone sono vittime delle politiche europee di respingimento, esternalizzazione e militarizzazione delle frontiere dell’Unione Europea”, commenta Diego Saccora. Uno dei cimiteri a cielo aperto più noti della regione balcanica è il fiume Drina, a cavallo tra Bosnia Erzegovina e Serbia. Qui, negli ultimi anni centinaia di corpi sono emersi dalle sue acque. Cadaveri la cui identità, provenienza e storie di vita restano sconosciute. E per questo sulle loro lapidi compare la sigla NN (No Name) o l’equivalente cirillico HH. Un video di Panta Rei mostra il racconto di Nihad Suljić, un attivista di Tuzla, che sta provando contrastare l'oblio, restituendo un nome ai caduti di frontiera, così da dare loro almeno una sepoltura dignitosa e, al contempo, preservare la memoria di questa pagina buia della Storia contemporanea.
La morte è uno spettro che aleggia lungo tutte le rotte migratorie.
Chi riesce a sopravvivere alle tappe del “Game” deve percorrere, nella migliore delle ipotesi, una via tortuosa, fatta di improvvise fermate e cambi di rotta. “I viaggi delle persone in movimento non sono mai lineari: si va avanti, se respinti si torna indietro e si riprova per altre strade”, spiega Saccora, che ricorda come “le nuove rotte sono determinate, tra le altre cose, dalle politiche dei governi nazionali ed europei, e dalle prassi delle polizie di frontiera”. Una dinamica che ricorda quello dei vasi comunicanti: quando alcune vie vengono bloccate, se ne aprono delle altre. “Negli ultimi tempi abbiamo visto come la via della Canarie sia una delle più battute da Marocco e Senegal o come si sia riaperta quello dello Ionio”. O come, per restare nei Balcani, negli ultimi due anni sia tornato di attualità il passaggio tra Turchia e Bulgaria.
Il viaggio, quindi, può durare anni e che per chi lo intraprende diventa in molti casi una condanna e l’unico spazio esistenziale possibile. Tra i tanti oggetti che lo caratterizzano e che testimoniano la violenza delle frontiere, uno dei più importanti è lo smartphone. Questo strumento permette alle persone in movimento di restare in contatto con i propri cari e con chi è già in Europa, ma può essere utile anche per orientarsi – per esempio attraverso Google Maps – e per testimoniare le prassi illecite delle polizie di frontiera e le condizioni drammatiche dei campi. Per questo la polizia di frontiera li sequestra e, come mostrano i dispositivi raccolti da Saccora e Clementi, distrugge schermi e videocamere. “Si tratta di un ulteriore via per silenziare le persone in movimento e per cancellare la memoria di quello che hanno vissuto”, commenta l’attivista.
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Panta Rei, vite migranti lungo la rotta balacanica
La mostra curata da Anna Clementi e Diego Saccora è un progetto dell’Aps Lungo la rotta balcanica, realizzato con il sostegno dei fondi Otto per Mille della Chiesa Valdese. Dopo la tappa bolzanina di fine novembre, Panta Rei sarà all’Istituto Wolf di Merano dal 9 al 13 dicembre.
Le iniziative a Bolzano e Merano sono realizzate con il contributo di Arci Bolzano, Forum Prävention, Teatro Zappa Theater Merano, Diverkstatt Brunico, Jugend Cultura Unterland, con il sostegno Provincia Autonoma di Bolzano.
Maggiori informazioni qui.
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Per molti, poi, il viaggio lungo la rotta balcanica è segnato dalla permanenza nei campi profughi, simbolo per eccellenza della precarietà esistenziale. Panta Rei mostra proprio come tende e container possano diventare spazi di confinamento in cui le persone sono assoggettate e rese passive dall’eterna attesa. Luoghi dove gli individui, spogliati della loro individualità e dignità, diventano vulnerabili e, di conseguenza, più facilmente controllabili. “Nei campi sulla rotta balcanica ho visto persone annientate dalla quotidianità regolata dal momento della coda per la distribuzione”, racconta Saccora, che descrive questa pratica come “una delle più vergognose, perché obbliga le persone a mettersi in fila pur sapendo di aver a disposizione un numero di beni – cibo, vestiti – inferiore al bisogno. Questo contribuisce alla distruzione morale degli individui”. A resistere contro l’oppressione silenziosa dei campi sono però le giovani generazioni, spinte dalla fame di futuro. “Attraverso i social vedono che i coetanei in altri posti del mondo fanno tutt’altro e questo li porta a sviluppare una coscienza politica per emanciparsi dal campo”. Così giovani donne afgane realizzano reportage sulle condizioni dei campi greci, giovani iraniani intervistano chi vive nei centri tedeschi per far emergere le pessime condizioni di vita all’interno del campo. “Negli ultimi tempi sono nate diverse reti di scambio di informazioni che vedono tantissimi giovani prendersi responsabilità e raccontare in prima persona la loro storia”, evidenzia Diego Saccora. Una storia che per alcuni si conclude con l’agognato approdo in un Paese europeo. La casa e gli affetti sono lontani e ora, sopravvissuti alla violenza delle politiche di frontiera e arrivati a destinazione, per loro è il momento di ricucire identità e memoria personale per poter immaginare di nuovo un futuro.
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Tra i principali destinatari di Panta Rei ci sono soprattutto i giovani. Come altri progetti dell’associazione Lungo la rotta balcanica, infatti, l’installazione si rivolge alle scuole medie e superiori e alle altre agenzie formative di tutto il territorio italiano. Per Diego Saccora l’incontro con studenti e studentesse è un momento di arricchimento prezioso, perché “da un lato ci aiuta a capire quali effetti ha la propaganda mediatica e politica, dall’altro permette ai ragazzi di esprimere il loro pensiero su questo tema e, soprattutto, fa emergere cosa vivono sulla loro pelle”. Le classi incontrate da Saccora e Clementi nel corso di questi anni – e la recente visita a Bolzano non ha fatto eccezione – presentano un melting pot di esperienze e provenienze. Il cerchio che precede e conclude la visita di Panta Rei, quindi, per gli studenti può diventare un vero e proprio spazio di autonarrazione. “La mostra e il nostro racconto diventano così anche uno strumento per far emergere le loro storie – come si sentono in classe, in autobus o per strada –, le loro aspirazioni e i loro sogni”, dice l’attivista.
Dopo dieci anni di impegno lungo la rotta balcanica, Diego Saccora è certo che andrà avanti nella sua attività di monitoraggio e testimonianza per continuare quella che definisce una forma di "resistenza internazionalista contemporanea". Così possono essere visti, secondo lui, gli attivisti che oggi si muovono lungo i confini, le staffette e i turn-over in frontiera. Oggi come allora, quindi la testimonianza di quanto accade lungo le frontiere è fondamentale: “Il nostro lavoro sulla rotta balcanica è un modo fare memoria”, conclude Saccora, per dire ‛noi sapevamo e abbiamo rifiutato di tacere’”. Panta Rei diventa in questo senso il luogo dove la memoria del presente viene custodita e, al tempo stesso, trasmessa alle giovani generazioni. Durante la visita e il momento di dialogo Saccora e Clementi costruiscono insieme ai ragazzi e alle ragazze uno spazio di incontro e riflessione sul tema dei diritti, della libertà di movimento e delle migrazioni. Uno spazio di conoscenza e confronto quantomai prezioso da preservare, alimentare e sostenere.
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Gli autori
Anna Clementi è presidentessa dell’associazione” Lungo la Rotta Balcanica – Along the Balkan Route”. Ha lavorato come operatrice sociale e mediatrice culturale all’interno del sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati di Venezia. Arabista e insegnante di arabo, ha lavorato per alcuni anni in Medio Oriente e in Grecia occupandosi di giornalismo e collaborando con organizzazioni non governative, accanto alle persone in movimento.
Diego Saccora è vice-presidente dell’Associazione “Lungo la Rotta Balcanica – Along the Balkan Route”. Ha lavorato come operatore sociale nell’ambito dei mnsa e richiedenti asilo, minori in misura cautelare e protezione sociale. È tutore di minori stranieri. Già presidente dell’APS ComuniCare con progetti rivolti all’autonomia e l’inclusione sociale dei neo-maggiorenni e richiedenti protezione internazionale, fa parte di Buongiorno Bosnia, Dobardan Venecija con iniziative a favore dei giovani in Bosnia-Erzegovina e promozione di viaggi di formazione nei Balcani . Tra il 2018 e il 2019, e poi nel 2021, ha vissuto in Bosnia Erzegovina, tra Sarajevo, Bihac e Velika Kladusa, dove ha collaborato con organizzazioni locali ed internazionali, oltre ad altri volontari indipendenti. Ha scritto articoli e reportage per Altreconomia, Melting Pot Europa e Terrasanta.
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