Lʼautonomia come principio giuridico
Lʼautonomia è un principio giuridico. Non occorre scomodare le radici greche della parola: ci basti ricordare che “autonomia” significa darsi norme da sé o, se preferiamo, non accettare passivamente norme stabilite e imposte da altri.
A lungo e da più parti si è cospirato contro questa antica idea. Al principio autonomistico è stato opposto un mito, un culto foriero di sciagure per lʼintera Europa: il mito statalista. Dalla Rivoluzione francese in poi questa favola per addottrinati ha dilagato ovunque e per tutto lʼOttocento giuridico si sono forgiati mitologie e culti contrabbandati per scienza. Ad esempio i giuristi tedeschi prima e italiani poi hanno spensieratamente abbracciato la fantasiosa teoria dello “Stato-persona”. Secondo questa teoria lo Stato sarebbe proprio simile a un grande uomo, con una testa (il “centro politico”), degli organi, degli arti per agire, un vero e proprio corpo insomma, ma anche con unʼanima, una volontà e insieme con la volontà, una coscienza. Presto si sono tratte le logiche conseguenze di una apparentemente innocua, astratta teoria: se lo Stato ha una coscienza, perché mai esso non potrebbe scegliere una religione (di Stato)? Se lo Stato ha una coscienza come potrebbe un suo singolo membro non conformarsi ad essa?
Fin dalle sue origini il mito statalista ha presupposto la preminenza del centro rispetto alla periferia e infine rispetto ai suoi singoli “soggetti”: lo Stato centrale ha diffidato non solo delle autonomie locali, ma anche di ogni forma di autodeterminazione individuale. A corroborare la robustezza del mito statalista si è aggiunta poi unʼaltra teoria, che si è fatta strada in modo inarrestabile e che è arrivata dritta dritta fino ai nostri giorni: la teoria della rappresentanza. Secondo questa teoria unʼassemblea legislativa sarebbe capace di rappresentare in modo perfetto una determinata società. Gradualmente al governo di uno solo si è preferito il governo di molti e per queste vie ci si è sentiti al riparo dallʼerrore e dispensati dal munire di freni e di limiti giuridici un simile potere. Si è ritenuto cioè che codeste assemblee, per la sola forza del loro numero, fossero anche sante e giuste. Perché dunque non accordare loro lʼonnipotenza? Così si argomentava: se esse rappresentano la società, se esse sono legittimate democraticamente, come possono cadere nellʼerrore? La storia del Novecento ha illuminato la risposta con la folgore: possono.
La negazione del principio autonomistico ha travolto la complessità del reale e con essa anche ogni forma di pluralismo giuridico, vale a dire ogni ordinamento etico e giuridico non conforme a quello statale: si sono negate così non solo le autonomie locali, ma anche i corpi intermedi che si andavano a frapporre tra lʼenormità dello Stato sovrano e un individuo sempre più solo e disarmato. Infine si è negato proprio quellʼindividuo: gli si è imposto come agire come parlare e cosa scrivere. I giuristi che nellʼOttocento hanno elaborato felici acrobazie giuridiche non potevano forse decifrare il futuro. Avevano affidato speranze e riposto aspettative nel volto benevolo del loro Signor Stato. Non si immaginavano che quel volto potesse mutare i propri connotati e nel Novecento mostrare infine un grugno mostruoso.
La negazione del principio autonomistico è andata di pari passo con il misconoscimento del diritto internazione o diritto delle genti: lo Stato accentratore non ha riconosciuto niente sotto di sé e non intendeva riconoscere qualcosa sopra di sé. LʼOttocento è stato del resto il secolo delle sette nazionaliste che hanno finito per precipitare il mondo intero nella catastrofe novecentesca.
Infine: lo Stato accentratore ha fatto della legge e del diritto uno strumento vuoto ed inerte, asservito agli scopi e alla forza del gruppo dominante. Ha contraffatto la storia e misconosciuto le sue fitte e complesse trame: in esse il principio autonomistico era impresso in modo indelebile.
Tutto questo ci pare oggi appartenere a unʼepoca remota. Non ci riguarda più. Non ci riguarda più perché non siamo in grado di percepire la grave eredità che pesa sul nostro presente: se la percepissimo, sapremmo che il passato è tuttʼaltro che morto. Esso ha contaminato ovunque ed è giunto fino ai nostri luminosi giorni.
Nel secondo dopoguerra si era consapevoli di come andò a finire lʼallegra avventura del centralismo: per questa ragione si riscoprì il principio autonomistico. Si vide in esso un principio costituzionale, cioè un limite giuridico al potere politico. I più intelligenti giuristi europei hanno scritto che una democrazia che si privasse di codesto principio sarebbe inevitabilmente esposta a degenerazioni dispotiche.
Questa lezione imperitura è stata purtroppo facilmente dimenticata e tuttʼoggi ascoltiamo politici ignoranti e inconsapevoli ripeterci la favola del centralismo politico e giuridico. Non appena conquistato il potere ci ripetono la fiaba del parlamento sovrano che “rappresenta tutti”, che è stato eletto da tutti e che dunque è legittimato a fare ciò che più gli piace. Senza freni, senza limiti. Ci ripetono che la maggioranza del momento (la maggioranza che ha vinto le elezioni, vale a dire la forza dominante) è stata eletta dal popolo e un simile argomento dovrebbe bastare a garantirne lʼinfallibilità. Evidentemente squaccherano. E parlano, diremmo con Tocqueville, una lingua da schiavi.