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Due epifanie romane

Una mattina passata a camminare tra due grandi arterie romane, tra vite e cose abbandonate al margine di una totalità decomposta e struggente.

Camminiamo e non ci capita nulla. Quando va bene. Quando va meglio, possono però accadere delle piccole e rare epifanie, chiamiamole così, come crepe prodotte nella trama delle nostre abitudini. E' solo allora che viviamo qualcosa di emozionante. Nel bene o nel male.

Due giorni fa ero a Roma e camminavo al margine di due o tre quartieri periferici - Quarticciolo, Centocelle, Collatino -, tra le grandi arterie Palmiro Togliatti e Prenestina. Camminare a piedi in quei luoghi non è molto divertente. Le auto sfrecciano accanto a grande velocità e ai pedoni sono riservati porzioni di marciapiede squassato, ingombri di rifiuti e sterpaglie residue (a proposito di certe sterpaglie: non si sa mai se vederle come il segno di una natura che resiste o che soccombe).

La prima epifania è accaduta nel teatro biblioteca del Quarticciolo, quartiere caratterizzato dagli stilemi dell'architettura popolare fascista e oggi abbandonato al degrado della sua irreparabile condizione periferica. Eppure, proprio in mezzo al degrado, questo teatro e questa biblioteca che sono un po' come un'isola alla quale approdare per tentare di salvarsi dallo sfacelo circostante. Ma ecco un imprevisto. Un ragazzo, avrà avuto vent'anni, visibilmente alterato, in piedi davanti al bancone dei bibliotecari reclamava che venisse risarcito all'istante di un furto avvenuto al piano rialzato. Non riusciva a spiegarsi bene, le parole gli uscivano di bocca stirate e turbate. Il reclamo era avvolto in un tono di minaccia (“Se entro cinque minuti, se entro un minuto...”) e gli impiegati lo ascoltavano imbarazzati, anche un po' impauriti. Nella piccola isola destinata a rianimare la speranza – libri, film, spettacoli sono sempre un veicolo di speranza – lui stava lì a ricordarci che nessuna isola può veramente salvarci dal mare ingrossato della paura e dell'angoscia. Non c'era verso di calmarlo, di fargli capire cosa avrebbe potuto fare, se davvero era stato derubato, se davvero era accaduto lì. Quando siamo usciti, gli impiegati avevano già deciso di chiamare i Carabinieri.

La seconda epifania è accaduta lungo la Prenestina. Un uomo anziano avanzava verso di noi con in mano una confezione di dolci. Quando ci siamo incrociati ci ha rivolto la parola, chiedendoci qualcosa sui prezzi dell'autolavaggio che avevamo accanto. Poi il discorso, che probabilmente era stato acceso solo allo scopo di estendersi ancora per un poco, i prezzi dell'autolavaggio erano solo un pretesto, ha subito svoltato verso temi di carattere storico e politico. L'uomo ci ha ricordato di essere nato nel quartiere San Lorenzo e ci ha fatto capire di essere stato un “comunista”. Ha nominato “Ingrao” e altri nomi o fatti “di quegli anni”. A un certo punto ha imitato una marcetta fascista canticchiando in tono denigratorio “Faccetta nera”. Anche nel suo caso, come in quello del ragazzo angosciato della biblioteca, era dunque il modo di quel che diceva, e non ciò che diceva, a risultare più marcato ed emozionante. Era un canto sconnesso al passato perduto, al cielo cancellato dei suoi valori, rievocati adesso di proposito a due estranei, come lui di passaggio su quel bordo consumato e sporco di città. Voleva capire se anche a noi quelle “sue parole” dicessero o potessero dire ancora qualcosa. Per essere riconosciuto, eventualmente per riconoscersi.