Cultura | Salto Gespräch

All Art Has Been Contemporary

In dialogo con Brita Köhler, co-curatrice del nuovo allestimento dedicato alla massima esponente del Cinetismo viennese.
Klien
Foto: Ludwig Thalheimer

Il museo d’arte moderna e contemporanea di Bolzano riscopre, con la mostra Bird Flight, la figura di Erika Giovanna Klien, artista trascurata dalla critica e dimenticata, nonostante il suo fervente impegno nella corrente d’avanguardia del Cinetismo viennese, negli anni ‘20 del secolo scorso.

Del team curatoriale della mostra, inaugurata l’8 aprile negli spazi di Museion, fa parte anche Brita Köhler, da molti anni responsabile del reparto servizi al pubblico e progetti educativi del museo.
La sua partecipazione all’allestimento è un fatto significativo, espressione di un nuovo corso nella gestione del museo d’arte da parte del direttore Bart van der Heide e senza dubbio una sua felice intuizione.

La mostra mette in relazione le opere di Klien con quelle di artisti e artiste a lei contemporanee e di generazioni successive, cercando di costruire nuovi percorsi interpretativi che possano restituire il giusto peso al suo lavoro artistico. Con Brita abbiamo parlato del suo ruolo in questo allestimento, dei numerosi temi sottesi all’esposizione e della figura di quest’artista misconosciuta.

 

 

Salto.bz: Questa è la prima volta per te in veste di curatrice non è vero? Com’è stata quest’esperienza?

Sì per me è la prima volta ed è un’esperienza bellissima. Sono molto grata a Bart che mi ha invitato a unirmi a questo team di curatori formato da lui e Andreas Hapkemeyer. Da un punto di vista contenutistico la ragione per cui sono stata coinvolta è anche che la figura storica con cui ci confrontiamo ed entriamo in dialogo, Erika Giovanna Klien, è stata una didatta dell’arte molto innovativa, allieva di un insegnante altrettanto rivoluzionario della scuola viennese, Franz Cižek.
Klien negli anni successivi alla sua esperienza nell’avanguardia viennese portò questo suo nuovo approccio alla didattica dell’arte negli Stati Uniti, dove insegnò in diverse scuole.

 

Il concetto di didattica museale ha alcuni portati negativi, l’idea di una distanza tra l’arte e i suoi fruitori, la sensazione che il pubblico debba fare riferimento ad un’autorità per avere accesso all’arte a cui da solo non riuscirebbe ad accedere.

 

Quindi anche una prospettiva diversa su come strutturare una mostra?

Esatto, come didatta viene naturale immaginarsi fin da subito come condurre il pubblico attraverso i vari spazi espositivi.
Normalmente col team che si occupa di didattica veniamo resi partecipi molto presto dei contenuti delle mostre ma non abbiamo voce in capitolo naturalmente sulla scelta o l’allestimento delle opere.
Penso che la mia esperienza col pubblico possa dare un apporto interessante – sapere ad esempio a quali stimoli reagisce, per cosa si sorprende o cosa cattura la sua attenzione...
Di fondo c’era anche l’idea di creare una mostra che non fosse appunto “didattica”, ma vissuta più come un’esperienza, in maniera autonoma. Il concetto di didattica museale ha infatti alcuni portati negativi, l’idea di una distanza tra l’arte e i suoi fruitori, la sensazione che il pubblico debba fare riferimento ad un’autorità per avere accesso all’arte a cui da solo non riuscirebbe ad accedere.
Per noi è stato quindi molto importante strutturare scenograficamente l’allestimento e scegliere le opere da esporre in modo che la mostra si spieghi diciamo da sola, e abbia un forte impatto come esperienza.

 

L’idea di coinvolgere il personale di Museion anche ad altri livelli in base alle diverse competenze è qualcosa di programmatico per la nuova direzione o il tuo è un caso isolato?

No, credo davvero che sia un approccio che Bart persegue fortemente. Anche precedentemente con Letizia Ragaglia abbiamo lavorato in certi progetti in maniera più trasversale, ma con il nuovo direttore si sta affermando una nuova visione del project management interno. L’idea è quella di lavorare per creare reti con il territorio, con le istituzioni, con gli operatori culturali, con il pubblico e che tutto debba essere in qualche modo connesso, ma per far sì che questo accada anche all’interno del museo il lavoro dev’essere connesso e trasversale. Questa è una visione nuova introdotta da Bart.

 

 

Da dove è nata l’idea di una mostra su Erika Giovanna Klien?

Era già da qualche tempo che Andreas Hapkemeyer pensava ad una mostra di questo genere. In qualità di ex direttore del museo Andreas ha una conoscenza privilegiata della collezione, di cui un grosso nucleo ha contribuito lui stesso a formare.
Nella collezione di Museion abbiamo infatti alcune opere giovanili dell’artista e l’idea che si è sviluppata è stata di metterle in relazione con altre opere della collezione e alcuni prestiti, cercando di costruire un dialogo tra le opere e gli artisti in particolare sul tema della luce e del movimento.

 

Bird Flight può anche essere letto metaforicamente come un’utopia, un desiderio di libertà di una giovane generazione di artiste che hanno sognato l’inizio di una nuova epoca e si sono impegnate per realizzarla.

 

Bird Flight è il titolo della mostra. Il volo è un filo conduttore o una chiave di lettura per l’esposizione?

Bird Flight è il titolo di una serie di opere dell’artista, che esponiamo in mostra e che sono da ricollegare alla militanza dell’artista nel movimento viennese del Cinetismo, che si interroga su aspetti formali come ad esempio la rappresentazione del movimento. Si tratta di una riflessione che è perfettamente in linea con il clima dell’epoca, l’epoca delle avanguardie e della modernità, in cui le città si ingrandiscono e diventano più veloci e frenetiche, un’epoca in cui le esperienze e gli ambiti si sovrappongono e intersecano.

Allo stesso tempo però Erika Giovanna Klien fa parte di quell’altra parte dell’avanguardia di cui parla Lea Vergine, quella frangia femminile che è stata dimenticata o trascurata dalla critica. Quindi Bird Flight può anche essere letto metaforicamente, non si tratta solo della rappresentazione del volo degli uccelli, delle piume e del movimento ma anche di una visione, un’utopia, un desiderio di libertà di una giovane generazione di artiste che hanno sognato l’inizio di una nuova epoca e si sono impegnate per realizarla. Erika Giovanna Klien è stata una donna coraggiosa, eccentrica, uno spirito libero che già allora non stava nei ranghi. Il suo però non è un approccio bellicoso e riottoso come quello dei futuristi, bensì l’espressione di una volontà più pacifica, empatica e creativa di proporre il cambiamento…

 

 

...e questo ha che fare secondo te anche con una questione di genere?

Si, forse si. Le donne all’epoca non avevano socialmente la possibilità di portare avanti una carriera creativa o artistica – e questo malgrado ci fossero numerose pioniere che operavano nell’ambito delle avanguardie, come nel Bauhaus, nell’avanguardia russa o appunto Klien nella Vienna modernista. Forse qui entra in campo anche il fatto che queste donne hanno sviluppato i loro progetti con mezzi più discreti. Al contrario della controparte maschile dell’avanguardia – pensiamo ad esempio ai futuristi – che propugnarono in modo aggressivo e urlato le loro posizioni, queste artiste si fecero portavoce di una visione non violenta del cambiamento culturale e sociale. Per mettere in luce questo particolare ruolo della donna all’aprirsi di un nuovo corso storico abbiamo voluto che fossero rappresentate nella mostra anche altre figure di artiste contemporanee che in qualche modo hanno riproposto o realizzato quello che Klien nella sua vita e nel suo lavoro non è riuscita a finalizzare. Ad esempio Klien aveva riflettuto su una concreta integrazione tra l’ esperienza corporea, lo spazio e il movimento – era molto entusiasta del teatro, interessata alla danza e alle arti performative – ma in qualche modo non è riuscita a realizzare questa trasposizione da un punto di vista artistico, come invece è riuscito ad alcune artiste dopo di lei, anche grazie a nuovi mezzi.

 

C’è un’effettiva influenza di questa artista sulle generazioni successive con cui è messa a confronto o è più un dialogo, un percorso ideale ricostruito a posteriori?

Sì, Erika Giovanna Klien non era molto conosciuta come artista in vita. Questo dialogo che la mostra propone con artisti di altre generazioni ha più a che fare con le istanze avanguardiste che Klien con le sue opere ma anche con la sua biografia esprime; il suo essere stata una visionaria. Non è stata quindi lei personalmente ad aver influenzato gli artisti con cui dialoga in mostra, ma è più lei stessa una metafora dell’avanguardia come visione e utopia di un modo non aggressivo, sottile di costruire il nuovo, rinnovare l’arte e la società, un modo meno definito di rappresentare la realtà o concepire la propria identità. Uno slancio energico che appartiene ancora al mondo dell’arte.

 

 

Come mai Erika Giovanna Klien non ha avuto successo? Si tratta solo di una questione di disparità di genere?

Penso che siano molti i fattori. Erano tempi caotici, in cui Klien si butta a capofitto ma con scarsi mezzi finanziari e senza trovare forse le connessioni giuste nel mondo dell’arte…e poi lei stessa era un lupo solitario. Ebbe anche molto presto un figlio fuori dal matrimonio che abbandonò per recarsi negli Stati Uniti e che non vide mai più. In qualche modo è una figura tragica, votata ad un certo cinismo, come emerge dai suoi diari, e che ha vissuto una forte frustrazione pur avendo avuto un certo successo come didatta, volendo essere riconosciuta invece come artista.

 

Cosa ti ha affascinato personalmente di questa figura?

Penso che una donna come Erika Giovanna Klien sia estremamente affascinante se vista come rappresentante di un’intera generazione di donne che hanno pensato e lavorato in modo moderno, innovativo ed entusiasmante. Figure che hanno cercato di perseguire un’ideale di libertà e di realizzazione personale, pagando anche un prezzo considerevole per le loro scelte anticonformiste.
La figura di Klien dimostra anche come tutta l’arte sia stata “contemporanea”, come tutto si sia sviluppato e sia in relazione con qualcos’altro prima e dopo, e se guardiamo alle posizioni ormai storiche degli anni ‘20 e ‘30 ci rendiamo conto come all’epoca fossero provocatorie e non necessariamente comprese. Se riusciamo ad intrecciare queste relazioni e mettere tutto in prospettiva non dovrebbe spaventarci il confronto con l’arte a noi contemporanea.