Abbiamo un piano, anzi quattordici
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L’ascensore sociale ormai funziona più in discesa che in salita e molti precipitano da quella che fu la classe media. Ma un’inversione di tendenza è possibile? Dai sette workshop del progetto di ricerca curato da Federazione per il Sociale e la Sanità ETS, Istituto Promozione Lavoratori ed Eurac Research sono emerse quattordici misure volte a promuovere la mobilità sociale.
Con il Direttore dell’IPL, Stefan Perini, ne abbiamo approfondite alcune.
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Direttore, partiamo dalla carenza di alloggi, spina nel fianco per gli altoatesini: una delle quattordici misure prevede un “Piano di alloggi sociali inclusivo, equo e sostenibile”. Cosa significa in concreto?
«Risolvere il problema della casa, lo sappiamo, è una questione nodale. Non è quindi un caso che, anche nelle discussioni nate all’interno del gruppo di lavoro focalizzato sull’inclusione sociale, il tema sia stato preponderante. La misura in questione riguarda quella fascia di persone svantaggiata, marginalizzata e con un basso reddito, circa il 15% della popolazione altoatesina, che persiste in una situazione di povertà relativa. Sono persone autoctone ma che arrivano anche da fuori provincia, persone con disabilità o che vivono in condizioni precarie. In sostanza, chi non riesce a risolvere autonomamente il problema dell’alloggio in quanto non dispone di mezzi finanziari o di condizioni contrattuali che consentano di garantire il fondamentale diritto all’abitare. La situazione abitativa ha un grande impatto sull’indipendenza delle persone, sulla loro qualità della vita e sulla partecipazione alla vita sociale, quindi va da sé che chi ha un tetto sopra la testa parte già da un contesto nettamente migliore rispetto a chi è a rischio continuo di sfratto o in generale vive in una condizione abitativa precaria. In circostanze come queste, è la mano pubblica a dover intervenire».Come si può agire, dunque, per migliorare lo status quo?
«Bisogna incentivare un piano di costruzione e ristrutturazione degli alloggi sociali che in Alto Adige sono poco più di tredicimila, un numero invariato da circa quarant’anni. La popolazione, nel frattempo, è infatti aumentata notevolmente, e l’offerta di alloggi sociali ora risulta quindi molto scarsa. A nostro avviso l’edilizia pubblica deve rientrare in un grande progetto che porti a una stretta connessione tra questione abitativa, sviluppo, inclusione e coesione sociale, in modo da favorire uno scambio fra i diversi gruppi sociali ed etnici per evitare fenomeni di ghettizzazione».Il tema della casa è emerso anche nell’ambito della discussione sul mercato del lavoro e incentrata sul binomio precarietà contrattuale-costo dell’abitare…
«Il focus in questo caso è stato posto sul fenomeno dei “working poor”, ovvero quei lavoratori che, pur avendo un’occupazione, non riescono a guadagnare il necessario per arrivare alla fine del mese. Lavori precari e mal pagati, uniti agli elevati costi della vita e dell’abitare, accentuano il problema e rendono sempre più povero il ceto medio. L’alta inflazione degli ultimi anni, unita agli stipendi fermi al palo, ha appesantito e aggravato una situazione già complicata».Quale soluzione si propone?
«Occorre intervenire sul mercato del lavoro, aumentando i salari e diminuendo contemporaneamente i costi dell’abitare, in modo che in tasca rimangano più soldi e si possa così condurre una vita più dignitosa. Ciò si può ottenere attraverso contratti collettivi territoriali e accordi aziendali rinegoziati e adattati al costo della vita altoatesino, affitti calmierati e un programma pluriennale di edilizia residenziale finanziato con fondi pubblici. -
Risolvere il problema della casa è una questione nodale. Serve incentivare un piano di costruzione e ristrutturazione degli alloggi sociali
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Passiamo al caldo tema della cosiddetta “settimana corta”: la misura consiste nella riduzione dell’orario settimanale di lavoro a trenta ore e nel sostegno finanziario adeguato per cura e assistenza familiare. È una proposta davvero fattibile? E quando potrebbe diventare realtà?
«È importante accendere i riflettori su tutte le misure presentate per lanciare una discussione sulle varie tematiche e iniziare ad approfondirle con i decisori politici. Nel caso specifico, il gruppo di lavoro che si è confrontato sulla questione della famiglia e della mobilità sociale ha sottolineato il problema del gender gap, ancora molto difficile da eradicare. Di solito le donne fanno più ore di lavoro non retribuito, hanno spesso contratti part-time e sono quelle che si accollano i carichi di cura della famiglia e della casa. Sulle donne vengono poi generalmente scaricate tutte le problematiche relative alla conciliazione lavoro-famiglia, cosa che ha inevitabilmente un profondo impatto sul loro percorso lavorativo con una conseguente limitazione delle opportunità professionali e, più avanti, sotto il punto di vista pensionistico. C’è una componente culturale sui ruoli di genere tradizionali che andrebbe superata, e soprattutto si deve rendere “visibile” il lavoro di cura non retribuito, al momento sottovalutato e raramente supportato. Per inciso, tenuto conto della dinamica demografica e in particolare dell’invecchiamento della popolazione, questo lavoro di cura sarà sempre più richiesto. Detto ciò, la proposta sviluppata dai gruppi di lavoro è piuttosto coraggiosa…»In che termini?
«Si tratta di garantire a chi ha obblighi di cura un adeguato sostegno finanziario. L’idea è quella di una settimana lavorativa di trenta ore con piena compensazione salariale per coloro che si occupano di assistenza e cura di figli o persone non autosufficienti. Parliamo quindi di ridurre l’orario di lavoro a parità di stipendio, con il datore di lavoro che pagherebbe le trenta ore mentre il restante sarebbe a carico della mano pubblica. Anche da un punto di vista previdenziale le persone interessate verrebbero trattate come se avessero un contratto full-time, dunque avrebbero un’integrazione assicurativa che andrebbe a scongiurare anche il gender pension gap».Un’altra proposta ambiziosa, dato che l’argomento incassa molte adesioni e altrettante critiche, è il “Lancio di un’iniziativa per il riconoscimento e l’uguaglianza giuridica di tutte le forme di genitorialità”.
«Sappiamo che in Italia il tema è controverso, basti ricordare per esempio che lo stesso ddl Zan contro l'omotransfobia si è arenato. Opinione comune all’interno del gruppo di lavoro dedicato, ma non solo, è che il modello della famiglia tradizionale risulti ormai superato. I figli che provengono da famiglie non convenzionali, per esempio da coppie dello stesso sesso o dalle patchwork families, rischiano di essere emarginati non solo dal punto di vista sociale, ma anche in termini di diritti. Secondo il gruppo di lavoro questo si traduce in un difficile accesso ai servizi pubblici e in una limitazione dei diritti come il mancato riconoscimento del secondo genitore o il diritto di adozione. A causa di questa discriminazione strutturale, sottolinea il gruppo, i bambini e le bambine provenienti da famiglie non convenzionali non godono della stessa protezione legale degli altri minori. Una condizione che può avere conseguenze negative per loro sia in termini di benessere ma anche di sicurezza finanziaria: pensiamo per esempio al diritto all’eredità».Cosa potrebbe fare concretamente l’Alto Adige nel merito?
«La Provincia non ha competenza legislativa in materia di riconoscimento delle forme di genitorialità e non può nemmeno intervenire sul diritto all’eredità, però potrebbe definire in modo più ampio il concetto di “famiglia” per quanto riguarda il proprio sistema di prestazioni sociali, gli assegni familiari, l’accesso agli asili nido, i sostegni economici alle famiglie e così via. C’è quindi un piccolo spazio di manovra per cercare di cambiare le cose. Sarebbe già un inizio».