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La vuota parata della Storia

Brillante esordio letterario per Lucio Giudiceandrea. Il suo Carlo V è un ritratto ironico dei movimenti, spesso non necessari, che animano gli uomini e gli eventi.
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Foto: Creative Common; Wikipedia

Che cos'è la storia, e che cos'è l'uomo che, della storia, assume le sembianze di forgiatore e forgiato? Francesco De Gregori, interpretando poeticamente la questione, cantava: «La storia siamo noi, nessuno si senta escluso». Rivendicazione condivisibile, soprattutto avendo in mente il grande quadro di Pellizza da Volpedo nella sua progressione dal primo abbozzo (gli “Ambasciatori della fame”) al compimento dell'ultima versione del “Quarto stato”. In apparente antitesi ecco invece il grande ritratto di Carlo V d'Asburgo, dipinto da Tiziano Vecellio nel 1548, che raffigura in modo magniloquente l'Imperatore del Sacro Romano Impero a cavallo, e la vittoria di Mühlberg (avvenuta l'anno prima) contro i protestanti della Lega di Smalcalda. Come si vede: modi assai diversi di intedere lo svolgersi degli eventi, i suoi protagonisti, nonché il plesso della loro problematica raffigurazione, eppure anche legati da una persistente idea di necessità.

Quattro scene per narrare il palinsesto incompiuto della storia

Sorprendendo un po' quelli che lo conoscono solo come “esperto di cose sudtirolesi”, il giornalista bolzanino Lucio Giudiceandrea fa arrivare adesso nelle librerie il suo felice esordio narrativo, cioè un libro che – trattandosi di un romanzo storico sui generis – si occupa delle domande alle quali accennavo all'inizio. Come Tiziano, ma facendolo scendere da cavallo, Giudiceandrea ha scelto proprio la figura di Carlo V e l'epoca della sua esistenza terrena (la prima metà del XVI secolo) per esercitare immaginazione e intelletto. Titolo enigmatico del volume, edito da alphabeta, “Todos Caballeros”. Romanzo storico sui generis, dicevo, perché l'intento qui rivelato non consiste nel ripercorrere minuziosamente una vicenda così possente, né quello di immergersi nelle sterminate pieghe che il genere permetterebbe di esplorare. Con una prosa asciutta e un ritmo molto veloce e piacevole, la materia fornita dalla biografia di Carlo V viene adattata piuttosto a una messa in scena teatrale, concentrandosi su quattro episodi esemplari (la scansione dei quattro capitoli, in francese, è curiosa: L'enfant prodige - N'est plus un enfant - Le prodige - Pas enfant, pas prodige) che miscelano una visione dal basso (inevitabilmente comica) a una più paludata (ma mai esente da ironiche pennellate di sbieco). E questo per dire in sostanza due cose opposte: Carlo V, il più potente dominatore del suo tempo, è anche il più impotente: al suo regno, sul quale il sole non tramonta, egli non riuscì infatti mai a dare una forma stabile. Col messaggio che ne consegue: «La storia – lo scriveva Stefan Zweig – non è un libro compiuto, finito, che si può leggere dall'inizio alla fine, ma un gigantesco palinsesto, uno schema appena abbozzato, anzi, per nove decimi mal congegnato».

Tutto un grande inganno, ancor più ingannevole se rivestito di solennità

Ora, il sottoscritto non ha sufficiente competenza per sindacare la scelta delle scene illustrate (la dieta di Worms, l'incoronazione di Bologna, la battaglia di Tunisi, e l'epilogo di Alghero), quel che conta – però – è che da ognuna di esse si percepisca con chiarezza come il palinsesto “mal congegnato” che è la storia venga alla fine riguardato senza infingimenti persino dai suoi interpreti più potenti, per statura e circostanze restii o addirittura “destinati” (da Dio, dal Popolo, da un ircocervo generato dai due, oppure, con gergo più contemporaneo, dalla Geopolitica) a non rendersene mai edotti. Ha scritto Cioran (filosofo che probabilmente Giudiceandrea si stupirebbe di riecheggiare): «Un genio malefico presiede ai destini della storia. Essa non ha manifestamente uno scopo, ma è gravata da una fatalità che ne tiene il posto e che conferisce al divenire un simulacro di necessità». Ecco, insomma, cos'è la storia: un simulacro, una maschera di necessità tenuta in piedi da un'impalcatura posticcia, per fare sembrare ciò che accade, ma per l'appunto solo sembrare (in primo luogo a chi pensa di tesserne la trama), un misterioso precipitato di volontà altissime e nobilissime. Più probabile invece che tutto non sia altro che un grande, prosaico inganno, ancora più ingannevole se rivestito di solennità. Perché la verità (della storia, della politica, e forse persino della vita) è che siamo tutti aspiranti caballeros in un mondo che ama le parate e gli sfondi di cartapesta.