Società | L'intervista

“Noi, privilegiati smemorati”

Toni Pizzecco, presidente di “Medici dell’Alto Adige per il Mondo”, sull’impatto delle missioni umanitarie, gli equilibri perduti e il fatalismo degli africani.
Toni Pizzecco
Foto: Medici Alto Adige per il Mondo

Oltre la retorica stucchevole dell’“aiutiamoli a casa loro” c’è la sostanza dei fatti. Dal lontano 2001 l’associazione di volontariato “Medici dell’Alto Adige per il Mondo” è sul campo per dare un contributo concreto in paesi come l’Etiopia, il Burkina Faso, l’Eritrea, il Kenya, il Camerun, il Mozambico, l’Uganda, la Tanzania, l’Afghanistan, l’India e il Nepal, attraverso interventi che vanno dai progetti sanitari e idrici alla costruzione di ospedali e orfanotrofi. 160 sono i soci attivi dell’associazione e annualmente partono in missione circa una ventina di volontari. In quasi vent’anni 19 sono stati i paesi toccati e circa una novantina i progetti compiuti. A guidare l’associazione, a cui oggi (15 gennaio) peraltro gli ospedali di Merano e Silandro consegneranno una donazione di oltre 8mila euro, c’è Toni Pizzecco, medico 67enne di Medicina generale a Laces in val Venosta nonché frontman dei Westbound, band che ogni anno organizza un tour estivo nel nord Italia per sensibilizzare l’opinione pubblica e raccogliere fondi per i paesi in via di sviluppo.

 

 

salto.bz: Dott. Pizzecco, medico con la valigia sempre a portata di mano, quante missioni ha all’attivo?

Toni Pizzecco: Parto in media due volte all’anno, ne ho accumulate diverse di missioni, in tutto finora saranno una quarantina, e la durata varia ogni volta a seconda del progetto. L’ultimo viaggio è stato due mesi fa, a novembre, in Etiopia, il paese di cui sono responsabile per conto dell’associazione e quindi dove ultimamente mi reco più spesso. L’intento è quello di collegare i vari progetti nell’area in questione.

Anche grazie ai contributi altoatesini un ospedale dimenticato è potuto risorgere

Di che tipo di progetti parla?

Mi riferisco soprattutto a interventi sanitari, operiamo in un ospedale di distretto, ad Attat, in cui vengono curate un milione di persone e che si trova nel sud dell’Etiopia, verso il confine con il Sudan e il Kenya. Un ospedale che abbiamo preso in mano perché versava in condizioni precarie. Si trova praticamente fuori dal mondo, in una zona molto povera, lontana dalla capitale e problematica da raggiungere, quindi con delle difficoltà logistiche oggettive. Anche grazie ai contributi altoatesini questo ospedale dimenticato è potuto risorgere.

C’è una storia che l’ha particolarmente colpita?

Ce ne sono tante. Me ne ricordo una che mette bene in risalto la differenza di mentalità fra le nostre due culture. Un giorno ci hanno portato un bambino che aveva un grave difetto cardiaco, la diagnosi fu infausta, e i genitori dissero: “Allora vorrà dire che dovremo fare un altro figlio”. Gli africani sono forse più fatalisti di noi, o più credenti, comunque la vogliamo mettere. Il punto è che sentiamo tutti il dolore alla stessa maniera, chi più e chi meno, ognuno però se lo porta a casa e lo gestisce a modo suo.

Quanto le costa “sdoppiarsi” fra il mandato umanitario e l’attività di medico di famiglia in val Venosta? 

In effetti è un problema che accomuna tutti noi medici del team che abbiamo scelto questa vita. Banalmente bisogna trovare il tempo per cercare di mediare fra la propria professione e l’associazione. Il nostro impegno si colloca a metà fra un’avventura e una missione che va assolta finché si è sani e in forze e quindi si ha la possibilità di portarla avanti. Noi tutti siamo dei privilegiati, questo non dobbiamo mai dimenticarlo. C’è tanta abbondanza in Italia, in Alto Adige. E crediamo che ci sia tutto ormai dovuto. È quella spinta morale che ci permette di fare quel passo in più, aprendo gli occhi davanti a certe realtà e quindi contribuendo in prima persona a ripristinare un equilibrio mondiale, e i movimenti giovanili a favore dell’ambiente, ad esempio, ne sono la più chiara espressione.

Creare delle scuole, dei supporti, far sì che almeno nei villaggi arrivi l’acqua è la base per cercare di evitare la fuga delle persone dai loro paesi d’origine. Altrimenti è ovvio che scappino, lo faremmo anche noi

Oggi i primari dell’ospedale di Merano e i medici di quello di Silandro le consegneranno, in qualità di presidente di “Medici dell’Alto Adige per il Mondo”, una donazione di oltre 8mila euro, che va ad aggiungersi ai contributi che ricevete dalla Provincia e non solo. Fondi sufficienti per i vostri progetti?

Riusciamo a starci dentro facendo attenzione a prendere in mano progetti che abbiano capo e coda, che siano costruttivi, trovando dei partner onesti nei paesi in cui operiamo, controllando insomma tutto il processo sul posto. Lo scopo finale è che siano gli autoctoni ad occuparsi successivamente dei progetti avviati. E più in generale l’obiettivo è creare un ambiente da cui la gente non scappi. Questo lo dicevamo vent’anni fa ma lo diciamo con ancora più convinzione oggi. Comprendiamo, in parallelo, l’atteggiamento di chi dice “i poveri ci sono anche qui in Alto Adige”, cosa che si è accentuata con il fenomeno migratorio, perciò occorre trovare delle soluzioni. Creare delle scuole, dei supporti, far sì che almeno nei villaggi arrivi l’acqua è la base per cercare di evitare la fuga delle persone dai loro paesi d’origine. Altrimenti è ovvio che scappino, lo faremmo anche noi. 

Una riflessione spesso trascurata in un contesto in cui domina la cultura del nemico.

Che sia cambiata la sensibilità collettiva non c’è dubbio. Certo è sconfortante vedere gente smarrita nelle nostre città che non ha lavoro né permesso di soggiorno. Bisogna ristabilire in qualche modo quel già citato equilibrio, naturalmente con i dovuti tempi perché si tratta comunque di un processo storico. Un po’ alla volta ce la faranno anche loro, quelli che oggi chiamiamo gli “ultimi”. Tutte le associazioni di volontariato per il terzo mondo non sono che una goccia in un oceano, ma tutte insieme sicuramente fanno una differenza. 

A volte ci vogliono nervi di ferro, non è un segreto

Le donazioni private alla vostra associazione sono diminuite con il proliferare delle polemiche sull’operato delle ONG?

Sicuramente c’è stata un’inversione di tendenza, tuttavia la nostra associazione, essendo locale, circoscritta e ormai molto conosciuta ha subito pochi rallentamenti. 

In un territorio come l’Alto Adige, che ha un problema cronico come quello della carenza dei dottori, quanto è complicato reclutare personale medico per le missioni?

Devo dire che la risposta è sempre stata e continua ad essere positiva. I medici sono motivati, e c’è una grande e progressiva voglia di aiutare, specie fra i più giovani. Ci arrivano molte richieste da parte di ragazzi che vogliono partire per le missioni, che però non sono qualificati. Inviamo infatti professionisti, personale già formato, medici specialisti, ma anche artigiani, elettricisti, idraulici. 

E sul piano emotivo come gestite il vostro lavoro?

A volte ci vogliono nervi di ferro, non è un segreto. Ma guardiamo i lati postivi: si torna sempre con un po’ di motivazione in più, si è grati per quello che si ha a casa, e si cerca di lasciare il mondo migliore di come l’abbiamo trovato, tutti del resto abbiamo o dovremmo avere questa volontà. Quello che dico sempre è che siamo privilegiati a poter dare una mano.