Cultura | Il ricordo

Eco distante

La seconda metà degli anni Ottanta a Bologna, il professore più famoso del DAMS e l'illusione di diventare tuttologi con la semiotica.

Quando poco dopo la metà degli anni Ottanta mi iscrissi al primo anno di DAMS, Umberto Eco aveva pubblicato già da un lustro Il nome della rosa ed era perciò uno degli intellettuali più famosi d'Italia. Talmente famoso che, senza voler minimizzare altri inevitabili motivi, il richiamo del suo insegnamento bastava di per sé ad attirare verso il capoluogo emiliano migliaia di giovani da tutto il Paese – e anche dall'estero. Il cosiddetto “Progetto Erasmus” appena agli albori (verrà istituito nel 1987) e tutti interessati a una disciplina dal nome un po' enigmatico ma molto promettente (promettente, forse, proprio perché enigmatico): “semiotica”.

Nell'architettura peculiare di quel corso di studi dalla fama un po' losca – dire “frequento il DAMS” non facilitava propriamente la ricerca di un appartamento e tantomeno l'avrebbe fatto se avessimo detto: "signora, io mi dedico alla semiosi illimitata..." –, “semiotica” aveva il ruolo di un muro portante, al quale potevano appoggiarsi non solo le altre materie inerenti l'arte, la musica e lo spettacolo, ma in pratica l'intero scibile umano. Secondo una mitologia popolare che sovrapponeva molto generosamente (in alcuni casi anche con una punta di disprezzo) il mestiere del “semiologo” a quello del “tuttologo”, Eco era così considerato un agile manipolatore di codici. Saper collegare ogni nozione a contesti interpretativi più vasti (è l'idea di Opera Aperta, forse il suo libro più bello e importante) conteneva la promessa di un metodo di conoscenza universale basato su due suggestioni, come si diceva in quegli ambienti, cortocircuitanti: da un lato l'erudito esperto di scolastica medievale (non a caso si era laureato sull'autore della Summa Theologiae), dall'altro l'uomo curioso di sperimentare nuove tecnologie (qualcuno confidava: pensate, ha scritto “Il nome della rosa” con l'aiuto di un computer...). Il tutto ovviamente laccato da una vena umoristica molto pop (basti citare l'esilarante Fenomenologia di Mike Bongiorno) che era anche una sottile forma di autoironia: una volta, a lezione, disse che aveva progettato di chiamare il suo Trattato di semiotica generale “Critica della semiotica pura”, ma poi si era accorto che qualcun altro c'aveva pensato prima di lui e lo cambiò per non essere accusato di plagio.

A questo punto due divagazioni d'atmosfera. La prima riguarda una libreria condotta da un greco, si chiamava Gregorio. Era poco più di uno sgabuzzino allungato e si trovava in via delle Moline. Non potendo purtroppo contare sul possesso di una biblioteca privata come quella di Eco, biblioteca leggendaria e borgesiana, era lì che ci rifugiavamo a sfogliare e ordinare tutti i volumi citati a lezione, più mille altri, ovviamente, seguendo il filo di suggestioni spesso dissennate (infatti ho cartoni pieni di quelle vecchie suggestioni, adesso, e mi ci vorrebbe un intero polo bibliotecario per metterle tutte a dimora). La seconda è costituita dalla nebbia, la densa nebbia bolognese (parente di quella londinese) che sfumava nei portici sotto ai quali filavamo dritti, noi studenti e i professori, fino ad annusare la sagoma color tabacco di un uomo avvolto in un loden, e poteva tranquillamente essere proprio Umberto Eco o una delle sue controfigure: Guglielmo di Baskerville aka Sherlock Holmes.

Quando poi arrivavamo all'ultimo esame era d'obbligo acquistare Come si fa una tesi di laurea. Allora gli spettri del naufragio venivano scacciati secondo una strategia che poi Wikipedia avrebbe reso di universale dominio: “L'importante – ci tranquillizzava il maestro con la sua voce raschiata – non è conoscere tutto, ma essere in grado di sapere dove andare a cercarlo”. Non ce ne rendevamo conto, ma era anche un modo per dirci che i libri, pur senza estinguersi in modo definitivo, presto si sarebbero polverizzati in un grande supermercato di opportunità mediatiche fatto apposta per noi, laureandi e laureati nell'università globale, palesemente ignoranti di scienze e di latino, eppure ancora illusi di costruire quegli oggetti complessi in teoria intesi a migliorare il mondo oppure, progetto altrettanto risibile, a incutere paura agli incolti (qui, e nella frase seguente, uso un tipico stratagemma echiano, avendovi cioè nascosto un brano tratto da un testo che parla di lui). Il resto è già storia.