Capire e distinguere
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Sentiamo i riverberi del terrore perpetrato da Hamas nel nostro discorso pubblico, in una specie di subconscia persuasione, che Hamas in certo modo coincida con la causa palestinese, per cui ogni notizia o commento che metta in primo piano il dramma dei palestinesi a Gaza dopo il 7 ottobre sia una forma subdola di consenso antisemita per i terroristi. Come se le notizie e i commenti avessero perduto la loro logica, che è quella di dire la verità a un pubblico democratico, anziché servire solo a posizionarsi nel dibattito politico, adottando la posa infallibile dei giusti. Un articolo di Federico Rampini sul Corriere della Sera affermava che più di trenta associazioni studentesche dell’Università di Harvard avrebbero “inneggiato ad Hamas” che è un’affermazione che evidentemente, qua da noi, ha una sua utilità, l’unico tipo di utilità che ha valore nel dibattito, quella di polarizzare la politica e identificare i giusti. Quando invece, se si va a cercare la famigerata lettera delle associazioni studentesche, Hamas non viene neppure citata. Che non è tanto meno grave, ma non è per niente la stessa cosa, anche perché gli studenti hanno affermato di ritenere “il regime israeliano interamente responsabile” di quanto accaduto, che magari non è la prima cosa che verrebbe in mente di fare quando ci sono tutti quei morti sul campo, ma è quanto innumerevoli israeliani di buon senso pensano (e scrivono, si legga in proposito quanto affermato da Yuval Harari sul Washington Post l’11 ottobre). Ma torniamo alla battaglia mediatica vinta da Hamas su un terreno, quello dei media e della comunicazione politica in Italia, contribuendo a saldare non solo, nel nostro povero immaginario, Hamas e palestinesi, ma anche Netanyahu (“il regime israeliano”) e Israele, costringendo la gente a ragionare per grandi semplificazioni: palestinesi contro israeliani, buoni contro cattivi, senza capire che i fatti sono per lo più l’effetto di decisioni politiche che non possono essere prese dai palestinesi o dagli israeliani, sono decisioni che la storia giudicherà, decisioni prese da élite, organizzazioni, leader…
È una specialità, devo dire, davvero tanto italiana, riproposta in mille modi tra tv e giornali: in un intervento su La7 Rula Jebreal ha proposto un’analisi a mio giudizio impeccabile di quanto sarebbe urgente fare ora, mettendo innanzitutto in evidenza la natura mostruosa di Hamas e distinguendo in maniera chirurgica tra Israele e la sua leadership e, dall’altra parte, tra Hamas e palestinesi. Ma la giornalista italiana, immemore del proprio sangue palestinese (che nelle tv italiane evidentemente conta più delle sue parole), ha fatto l’errore retorico di non dire altro, di non limitarsi a dire le stesse cose sulla strage mostruosa del 7 ottobre, si è permessa di dire quella cosa che per qualsiasi commentatore politico di buon senso, in qualsiasi altra parte del mondo, sarebbe stato importante dire, e cioè che il rischio oggi, il rischio immediato, dopo aver pianto le vittime, è non cadere nella trappola di Hamas, di non consegnare cioè i palestinesi, tutti i palestinesi, nelle mani di un manipolo di fanatici assassini. Che non è così diverso da quanto detto non da un militante di Hamas, ma dall’ex premier israeliano Barak, che afferma che Netanyahu “ha lasciato Gaza ad Hamas”. Ma lui può dirlo, Rula Jebreal no.
La giornalista faceva cioè un ragionamento rivolto al futuro, ma un ragionamento incomprensibile per chi ragiona secondo categorie italiane, come il direttore del Foglio, che non ha perso l’occasione per attaccarla duramente, lasciando emergere il grande ‘frame’ di riferimento del suo modesto pensiero politico: che Hamas coincide con la causa palestinese e non esiste, dall’altra parte, una distinzione di principio tra Israele e la peggiore leadership che gli sia toccata in sorte dai tempi di Erode Archelao. Il direttore, per altro, chiarisce il suo monolitico pensiero in un editoriale, sul suo giornale, dal titolo “I civili di Gaza sono tutti sulla coscienza di Hamas”, che vuol dire che Israele può anche sterminarli tutti e potremmo aggiungere noi, parafrasando il legato di Innocenzo III, “Novit enim Dominus qui sunt eius” (dio riconoscerà i suoi).
Naturalmente, per chi ragiona per mezzo di queste povere griglie, chi scrive sarebbe a sua volta un segreto simpatizzante di Hamas, per cui per riequilibrare i pesi, vorrei parlare non solo delle allucinazioni di Rampini e Cerasa, ma anche di quelle della sinistra che sono, al netto di tutto, intellettualmente più misere, perché parlare di Israele da sinistra, in Italia, è più che altro una posa, la nostra è l’unica sinistra al mondo che celebra sconfitte e funerali con il segreto e abbastanza indegno proposito di posizionarsi tra i giusti, quelli per intenderci della parata finale del film (per chi l’ha visto) Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, coi loro sguardi fieramente giudicanti (lo sguardo, per intenderci dell’indimenticata ministra Finocchiaro quando disse “parliamo di parlamentari, non di bidelle” manifestando un classismo che oggi la sinistra, dopo dieci anni, non si preoccupa neanche più di nascondere).
Si pensi allora, in un contesto completamente polarizzato come il nostro, dove l’analisi non conta nulla, conta solo mettersi da una parte o dall’altra e pesare le parole del nemico, all’affermazione uguale e contraria di Carlo Rovelli, che in un suo celebre post (in fondo a che servono gli approfondimenti quando puoi parlare di una tragedia con un tweet, l’importante è non sbagliare funerale): "Gli israeliani massacrano i palestinesi: nessun problema per l'Occidente. I palestinesi massacrano gli israeliani: l'Occidente è totalmente scioccato. Decenni e decenni così, e continuano. Se questo non è razzismo, cos’è?". Ma non è vero, anzi, è un’affermazione così spregiudicatamente falsa da non meritare, quasi, la minima chiosa. Vorrei dire solo questo, che la democrazia ha i suoi monumenti e i suoi strumenti di rappresentazione del dolore e del passato, ma sono strumenti bipartisan, che hanno dato volto e voce alle vittime di ogni segno, perché se le vittime palestinesi fossero invisibili, o le fossero state, non avremmo innanzitutto le 30 associazioni studentesche di Harvard che accusano Netanyahu di essere il responsabile di quanto accaduto a Gaza dopo il 7 ottobre; e la Palestina non sarebbe un osservatore permanente presso le Nazioni Unite.
Forse sto confondendo i lettori, almeno quelli diseducati da un dibattito italiano in cui non importa nulla comprendere, l’importante è piangere sempre e soltanto allo stesso funerale. Io rivendico invece la mia incapacità di comprendere a fondo questo conflitto, e mi piacerebbe capirci qualcosa ascoltando quelle che i miei manuali chiamano autorità epistemiche. Qualcuno che provi a capire e a distinguere, non a schierarsi in prima battuta, qualcuno che sappia esercitare, magari, un’unica pietas per tutte le vittime.