La forza nella voce
Chi non ha sentito almeno una volta nella vita il nome Tina Turner? È tra le più grandi rockstar femminili a livello mondiale, la cui vita (anche) molto drammatica è ora sugli schermi (dopo l’anteprima alla Berlinale 2021), grazie a un bel documentario realizzato dal regista americano Dan Lindsay nel 2020, intitolandolo semplicemente “Tina”, come già aveva fatto Wim Wenders col suo “Pina”, il film sulla “signora della danza contemporanea” Pina Bausch (uscito anche in una intrigante versione a 3D).
Forse pochi sanno però che quel nome, Tina, non è il vero nome e ciò che oggi è considerato uno pseudonimo come ce l’hanno in tanti le fu “dato” a suo tempo da colui con cui aveva iniziato a calcare le scene, da giovanissima: Ike Turner. Fu lui a dire che con quel semplicissimo e orecchiabilissimo nome, breve e conciso, Tina, avrebbe facilmente conquistato il pubblico. Cantando assieme e per lui, assieme alla sua band, ovviamente! Infatti, l’accoppiata Ike and Tina Turner raggiunse grandi successi in giro per gli Usa negli anni sessanta e settanta. Ike Turner era stato anche l’inventore del rock, sì, perché uno dei primi song scritti fu quel Rocket 88 che viene indicato come primo brano rock in assoluto, sebbene sia stato inciso e portato al successo da un altro musicista: Jackie Brenston & His Delta Cats (lo dicono tutti i siti consultati in rete…). È lo stesso Ike, intervistato a proposito nel 1981 (vediamo il footage della intervista, essendo lui morto nel 2007 all’età di 76 anni), a reclamare l’autorialità, oltre a ribadire il fatto che il suo genio musicale – che senz’altro c’era stato – sarebbe stato sfruttato da tanti pur di emergere e poi lasciare lui indietro, in secondo piano, o persino dimenticato. Quando Ike aveva incontrato Tina nel 1960 (all’epoca si chiamava ancora Anna Mae Bullock) - la quale dovette pregare in ginocchio alcuni dei componenti della band per riuscire a fare un’audizione con Ike, dopo averlo sentito per la prima volta dal vivo in un locale di Memphis, essendo stata una perfetta sconosciuta che fino a quel momento aveva cantato gospel in una chiesa battista americana in un paesino a una settantina chilometri dal centro del rhythm & blues nero – Ike le fece giurare che non l’avrebbe mai abbandonato e ciò che inizialmente fu piuttosto una collaborazione eseguita con grande complicità da fratello maggiore con la sorella minore, ben presto era sfociato in una relazione d’amore…
Il documentario è suddiviso in cinque parti, dove ognuna in modo piuttosto rigoroso si attiene al sintetico titoletto che riassume in un unico concetto ciò che poi sarebbe stato aperto come un ventaglio nelle immagini, di cui tantissime d’archivio (infatti c’è una lista lunghissima di ringraziamenti nei titoli di coda ai diversi archivi da cui provengono), segno di una lunga e diligente ricerca - a priori e posteriori - per illustrare al meglio ciò che la stessa Tina Turner aveva dichiarato in una intervista su “Today” nel marzo 2021 essere “appoggiato” – ossia il filo rosso del documentario - al suo libro di memorie, Happiness Becomes You (uscito nel 2020).
Il quarto capitolo The Story assume un ruolo centrale sia nel film che nella vita di Tina, in quanto vi si narra il momento in cui la cantante/performer aveva deciso di rendere pubblica le violenze subìte dall’ormai marito (si erano sposati nel 1962) e padre del figlio Ronnie (altri due, Ike Jr e Michael, provenivano da una precedente unione con un’altra donna di Ike, mentre Craig, a cui il film è dedicato, essendo morto nel 2018 a soli 60 anni, lo aveva portato lei nel nuovo matrimonio, e stranamente è l’unico che compare in alcuni stralci di intervista). Lo fa in modo molto delicato ma diretto e determinato, Tina, dal momento in cui aveva deciso di parlarne con Carl Arrington, critico musicale della rivista americana “People”, sulle cui pagine ogni persona famosa trovò spazio per narrarsi al grande pubblico: ne parla a cuore aperto, convinta che una volta raccontata “la storia”, i giornalisti non l’avrebbero più importunata con domande sulla sua vita privata, la carriera con Ike e persino commenti su fatti accaduti che riguardarono unicamente lui e la sua vita, mentre lei lo aveva già lasciato da tempo e ormai viveva da sola essendosi rifatta una carriera come solista.
Cosa tutt’altro che facile, in quanto negli Usa il suo nome era indissolubilmente legato a quello di Ike, nel senso che Ike&Tina era un tutt’uno per il pubblico e la critica, a partire dal Grammy Award vinto per Proud Mary. Nessuno volle accettare Tina da sola, per altro, l’unica cosa che le era rimasto, dopo il divorzio, fu il suo nome “Tina Turner”, datole per l’appunto dallo stesso Ike, il quale invece si era preso e tenuto tutto il resto, ivi inclusi i diritti d’autore dei loro brani molto noti nel campo del soul, pop, R&B, funk, rock e rock’n’roll. Persino gli alimenti per tirare su (anche) i figli di lui, se li dovette pagare da sola, essendo stata considerata – agli atti – colpevole di aver abbandonato il tetto coniugale… Come effettivamente era accaduto, una notte, nel 1976, prima di un concerto e dopo essere stata menata per l’ennesima volta dal marito, in taxi, durante il percorso dall’aeroporto in albergo e lei aveva preso quella decisione di agire, ormai forte dell’energia vitale che stava coltivando quotidianamente grazie alla pratica del buddhismo del sole giapponese che, ironia della sorte!, le aveva insegnato proprio la nuova fiamma del marito portata in casa un bel giorno. Lei, diligente e con la forza della sua potente voce, chantava (come si dice in gergo buddhista per recitare il mantra Nam Myo Ho Renge Kyo) tutti i giorni e con tutta sé stessa, finché piano piano aveva capito che l’unica a poter cambiare qualcosa nella sua difficile situazione di totale sottomissione era lei. Nessun altro! E dopo essersi separata, ha dovuto lavorare sodo, accettare tutte le apparizioni in pubblico, tutto ciò che in realtà lei non voleva più fare. Il suo desiderio era cantare unicamente il rock e diventare la più grande rockstar femminile al mondo! Per farlo aveva bisogno di un manager che tardava a farsi avanti, ma grazie alla sua fede inenarrabile ci è arrivata laddove voleva: nei grandi stadi con migliaia di persone. E a finire in prima pagina con titoli del tipo “la donna che ha insegnato a ballare ai grandi rocker, come Mick Jagger e Rod Stewart…”
Le parole che narrano le violenze sessuali, anche quelle con cui è il figlio Craig a dire ciò che aveva sentito a volte da piccolo, non sono accompagnate da immagini esplicite, non volendo essere il film né volgare e tanto meno sbattere in primo piano una attrice più giovane per illustrare parole che parlano, anzi, urlano da sole! No, il film si limita a far proseguire – quasi silenti – noi, che lo guardiamo, assieme all’obiettivo che si infila nello stretto corridoio della casa per giungere fin dentro la camera da letto e fermarsi unicamente davanti a tre cuscini poggiati in modo quasi innocente sul letto vuoto, ricoperto con un copriletto rosso bordeaux. Sono immagini potenti che si ripetono ogni volta che quella violenza viene menzionata. Qui il regista rende onore – forse - al profondo desiderio intimo di Tina di voler dimenticare ciò che era accaduto e che – ormai lo sa – è possibile fare soltanto, se al contempo si perdona la persona che ci ha fatto male, tanto male, altrimenti la nostra mente (e le nostre emozioni) tornano sempre lì, in quel luogo oscuro della memoria per farci star male, e ogni volta più male!
“Perché soffrire, se ne possiamo fare a meno?”, si chiede sorridendo Tina, come si presenta oggi: una splendida ultraottantenne (è nata il 26 novembre 1939), seduta su una sedia, capelli a caschetto, sorriso sulla bocca e occhi neri dallo sguardo profondo, per rispondere dal vivo ad alcune delle domande di più grande attualità. Con lei ci sono altre persone che si alternano nel narrare episodi della sua vita, tra cui l’attrice Angela Bassett, la sua amica Oprah Winfrey (la famosa conduttrice di talk show americani), l’autore del libro (e co-autore della sceneggiatura del film) Kurt Loder e il songwriter Terry Britten, autore del famosissimo What’s Love Got to Do with It? per cui vinse il Grammy per il miglior song nel 1985 cantato da una ormai irrefrenabile Tina.
Una sorta di perdono nei confronti di Ike Turner lo è inoltre il modo in cui il musicista viene presentato nel film (pare fosse la stessa Tina a insistere su questo). Certo alla luce di tutte le violenze compiute sulla “sua” Tina, di cui si parla alla maniera di fatti accaduti, con la giusta carica drammatica, ma non viene tralasciato il grande talento con cui Ike aveva creato la sua musica e scritto (più tardi anche prodotto) i suoi song. È lei stessa a sottolineare che – col senno del poi – ripensa a lui come a una persona malata e che forse – per dolori subiti a suo volta quando era piccolo e/o giovane – non poteva agire diversamente... Di sicuro non si possono scusare attitudini del genere grazie a questo tipo di ragionamento, e pertanto è stata lei – e solo lei! - a liberarsene, ad andarsene per rifarsi un nome, il suo, una nuova immagine (taglio di capelli e cambio di look) e finalmente la “sua” musica, il rock, con cui conquistare il pubblico, quello dei grandi numeri, dove il record lo aveva raggiunto con 180mila presenze!
Come fare a uscire col passo felpato dalle scene, senza tuttavia sparire?, ci si chiede verso la fine dei centodiciotto minuti che sembrano volare tanto fluisce il montaggio tra scene di concerti, di interviste, girate ex novo sulle note dei brani più famosi a partire da Private Dancer. “Questo documentario e il musical che Tina aveva aperto alla sua presenza a New York (con l’interpretazione del suo ruolo da parte di una giovane attrice) contribuiscono a questo lento abbandono a una vita privata, tutta sua, nella patria adottiva, la Svizzera”, chiude il discorso Erwin Bach (sposato nel 2013, dopo essersi conosciuti 27 anni prima - un amore a prima vista!). Colei che era cresciuta nei campi di cotone, povera e abbandonata dalla madre da piccola, oggi possiede una villa enorme piena dei tantissimi premi conferitile nel corso di una lunghissima carriera, dove nemmeno il cinema era mancato (ricordiamo la sua apparizione nel 1985 in Mad Max - Oltre la sfera del tuono di George Miller).