Società | INTERVISTA

Da Bolzano al Sudan per aiuti umanitari

Tornato dalla missione in Sudan per conto di Medici Senza Frontiere, Michael Casera racconta cosa lo ha portato a lavorare nel settore degli aiuti umanitari.
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Foto: Casera

Egitto, Libano, Uganda, Iraq, Sudan del Sud. Sono solo alcuni dei Paesi in cui il ventottenne di Laives Michael Casera ha potuto mettere piede. Dopo diversi studi e lavori di ricerca, Casera è riuscito a concretizzare un suo grande desiderio: unire la passione per l’epidemiologia con il lavoro nel settore degli aiuti umanitari. Tornato da qualche settimana in Italia, racconta a Salto.bz la recente missione, svolta con Medici Senza Frontiere, in Sudan dove, tra le altre cose, poco prima del viaggio di ritorno ha assistito ad una guerra civile tra due tribù che ha causato migliaia di dispersi.

 

Salto.bz: Casera, facciamo un passo indietro: come è arrivato a conoscere la ONG con cui lavora?

Michael Casera: Prima di tutto ho svolto un bachelor presso il Management Center Innsbruck incentrato sugli studi di salute pubblica, grazie ai quali ho preso parte ad un’attività di ricerca sul cancro al seno in un ospedale al Cairo. Successivamente, ho ottenuto un master in Global Health con specializzazione in epidemiologia a Copenaghen, durante il quale ho fatto un tirocinio come assistente della Croce Rossa libanese, lavorando nei campi profughi siriani in Libano. Ho inoltre fatto una ricerca sulla prevenzione del colera al nord dell’Uganda, nel campo per rifugiati di Bidi Bidi, uno dei più grandi al mondo che, allora, contava 280 mila persone. Dopo l’Uganda ho iniziato a lavorare come assistente di Médecins du Monde in Iraq dove, dopo 9 mesi, sono tornato come coordinatore di monitoraggio e sorveglianza del team medico. Infine, sono arrivato a Medici Senza Frontiere, la ONG per cui lavoro e con cui ho svolto due missioni: la prima in Sudan del Sud, per 15 mesi, la seconda, di 3 mesi, in Sudan. 

È importante non avere una visione post-colonialista, secondo la quale gli occidentali arrivano nei Paesi in via di sviluppo per curare e salvare le persone

Soprattutto con l’arrivo della pandemia da Covid-19, avrebbe potuto lavorare rimanendo in Europa. Cosa lo ha spinto a svolgere il lavoro di epidemiologo in altre zone del pianeta?

La mia grande passione, è vero, è l’epidemiologia e il mondo delle malattie infettive. D’altra parte ho sempre avuto il desiderio di lavorare nel campo degli aiuti umanitari, quindi ho cercato di unire le mie due passioni. I contesti in cui opero sono certamente più complessi, ma si portano con sé anche alcuni aspetti interessanti.

 

Ad esempio?

Oltre a incontrare nuove culture, ho l’opportunità di lavorare insieme a delle persone che di quelle culture fanno parte. Penso che sia importante, però, non avere una visione post-colonialista, secondo la quale gli occidentali arrivano nei Paesi in via di sviluppo per curare e salvare le persone. Io, invece, mi riconosco molto di più nell’ottica di Medici Senza Frontiere, che punta ad avere uno staff internazionale proveniente proprio dalle zone in cui servono gli aiuti umanitari. Mentre mi trovavo in Sudan del Sud, per alcuni periodi mi è capitato di essere l’unico europeo del team di coordinazione, ma, nonostante l’assenza di una mentalità e un background comune a tutto lo staff, mi sono sempre trovato bene.

Da qualche settimana è tornato dalla missione in Sudan, di che cosa si è occupato?

Rispondere non è facile. In una missione di MSF si agisce sempre in base all’evidenza di un fenomeno. Per farlo si analizzano i dati dei pazienti, quindi ad esempio il numero di morti per malaria o la percentuale di positività, e si trasformano questi dati in indicatori. Inoltre, quando abbiamo un caso sospetto di una malattia con un potenziale epidemico (un esempio per il Sudan: il colera), ci attiviamo per avere delle analisi giornaliere circa lo sviluppo della situazione.
Io, come epidemiologo, fornisco delle valutazioni sul campo utili alla ONG per capire dove intervenire. Come detto prima, serve un riscontro diretto.

Precisamente, dove ha avuto luogo la sua missione?

Ho passato due dei tre mesi in cui sono stato in Sudan nella città di al-Damāzīn, nella regione del Nilo Azzurro, una zona remota ma importantissima. È situata appunto vicino al Nilo e ha una diga che, tra l’altro, è stata costruita da una azienda italiana negli anni ’70 ed è molto importante per la fornitura di elettricità. Per di più, essendo membro del gruppo che coordina la missione, solitamente mi trovavo a Khartum, la capitale. Questo perché serve avere una costante collaborazione con il Ministero della Salute del Paese.

All’improvviso, una minoranza della tribù degli Hausa ha attaccato una popolazione locale, che ha iniziato a uccidere in modo significativo gli Hausa. I combattimenti sono avvenuti anche vicino alla base del progetto.

A proposito di cooperazioni con i Governi, come sono percepiti i vostri aiuti umanitari dal mondo politico?

Dipende molto dal contesto. Come ONG cerchiamo di collaborare il più possibile con il Ministero della Salute, per esempio quello del Sudan del Sud apprezzava molto il nostro supporto. È un Paese nuovo – indipendente dal 2011 – che ha ancora diverse lacune nell’ambito dei servizi offerti alla popolazione.

Poco prima del suo ritorno, in Sudan è scoppiata una guerra civile. Cos’è successo e come avete agito?

Circa a metà luglio mi sono ritrovato in mezzo ad una vera e propria guerra civile tra due tribù. All’improvviso, una minoranza della tribù degli Hausa ha attaccato una popolazione locale, che ha iniziato a uccidere in modo significativo gli Hausa. I combattimenti sono avvenuti anche vicino alla base del progetto e hanno causato migliaia di dispersi. Sono dovute intervenire le forze armate sudanesi a calmare la situazione, ma il problema dei dispersi è veramente grave ed ora, questi, sono stati messi temporaneamente negli edifici scolastici. Voglio sottolineare che Medici Senza Frontiere, non essendo finanziata da Stati e Istituzioni, ma dai fondi privati, ha potuto agire all’istante grazie ai fondi di emergenza; una caratteristica che può essere determinante in circostanze come queste.

 

La situazione sanitaria, quindi, rischia di aggravarsi…

Esatto. Ora il rischio della presenza di casi di colera è reale. Fin da subito abbiamo cercato di sorvegliare la situazione delle diarree acute, verificando se fossero causate, o meno, dal colera. Ad oggi non risultano esserci casi, quindi gli episodi di diarrea erano causati da altri virus meno complessi da gestire in una situazione del genere. Ma sussiste anche un altro problema: il rischio di un focolaio di morbillo.

Ha già in programma nuovi progetti?

A metà settembre partirò per Haiti, dove starò per 3 mesi. Il grande progetto che mi aspetta, però, riguarda l’Africa dell’Est, specie l’Etiopia, il Sudan del Sud, il Sudan, il Kenya e, di nuovo, Haiti. Mi aspettano mesi di grande lavoro.