Sulla decisione del nuovo governo di Vienna di inserire nel programma di coalizione tra ÖVP e FPÖ anche l'impegno a consegnare nelle mani di coloro che possono dimostrare di avere nelle vene quattro quarti di sangue sudtirolese l'agognato passaporto austriaco si è scritto e si è detto, in questi giorni, un po' di tutto. La stampa internazionale si è gettata sulle notizia, ben lieta di poter affiancare poche righe sulle stranezze che avvengono in Alto Adige agli articoloni sugli ultimi sviluppi della secessione catalana. Quella italiana non ha mancato di dimostrare, con qualche felice ma rara eccezione, la consueta mancanza di conoscenza delle cose altoatesine e la predilezione per l'ovvio e per il banale con le interviste a cascata agli atleti azzurri dello sci e i soliti siparietti con la prediletta Eva Klotz.
Sul piano più strettamente politico, la tempesta polemica, più a livello locale che nazionale, si è prontamente placata quando il neo Cancelliere austriaco ha osservato che sulla questione intende sentire anche l'opinione del governo italiano. Tutto rinviato, par di capire, ai prossimi mesi, quando a Vienna dovranno decidere se dar seguito o meno all'impegno di programma.
Quel che forse è mancato, nel coro dei commenti e delle valutazioni, è uno sguardo più ampio che vada a collocare la questione del doppio passaporto nel contesto delle politiche di vari paesi europei ed extraeuropei sulla cittadinanza, ivi comprese quelle praticate in Austria ma anche e soprattutto in Italia.
Uno tra i più autorevoli opinionisti che si sono esercitati sull'argomento ha scritto, sbagliando, di aver avuto ancora i pantaloni corti quando già si dibatteva della richiesta dei sudtirolesi di diventare cittadini austriaci. In realtà l'argomento è entrato da assai poco tempo a far parte di quella famosa lista di richieste che la SVP conserva gelosamente in un cassetto e che sfodera quando ritiene che il momento sia opportuno e che l'interlocutore sia quello giusto. L'idea primigenia, come essi stessi hanno rivendicato con orgoglio, appartiene agli allora onorevoli Siegfried Brugger e Karl Zeller, che la imposero, all'incirca un decennio fa, all'attenzione del loro partito. Solo successivamente la destra secessionista sudtirolese se n'è impadronita ne ha fatto una propria bandiera.
Non si deve pensare, tuttavia, che i due deputati abbiano concepito l'idea spontaneamente, magari durante uno dei lunghi viaggi da e per Roma. Essi stessi ammettono che l'ispirazione fu loro fornita dalla decisione italiana di riconoscere la doppia cittadinanza agli italofoni di Istria e Dalmazia, ultimi rimasti delle comunità italiane, dopo il grande esodo della seconda metà degli anni 40 dalla Jugoslavia di Tito ed oggi cittadini di Slovenia e Croazia.
Anche questa decisione politica, maturata con provvedimenti legislativi dall'inizio degli anni 90 sino al 2005, va considerata, tuttavia, nel quadro più generale di una revisione totale della politica italiana sulla cittadinanza praticata proprio in quegli anni. Come qualcuno ricorderà, sulla base del principio dello "ius sanguinis" l'Italia decise allora di concedere la propria cittadinanza a moltissimi cittadini esteri, figli e nipoti di emigrati, dispersi ormai in tutti i paesi del mondo. Si trattava di soggetti che molto spesso avevano perso ogni contatto con la madrepatria, non ne conoscevano nemmeno la lingua, non avevano con essa contatti di alcun genere. Eppure fu riconosciuto loro il diritto di tornare ad essere cittadini italiani e, con una norma particolare, di esercitare il diritto di voto, eleggendo, in apposite circoscrizioni, un determinato numero di parlamentari.
All'interno di questo più generale processo di "recupero" dei discendenti degli emigrati, si colloca la questione specifica degli italiani ormai da decenni cittadini della Jugoslavia prima e di Slovenia e Croazia poi. La concessione a questi soggetti della cittadinanza italiana fu attuata legislativamente in due passaggi diversi, il primo all'inizio degli anni 90 e il secondo, destinato a coprire alcune categorie che erano rimaste escluse, nel 2005. Il tutto non senza polemiche e reazioni molto dure da parte del mondo politico dei paesi interessati. Sia in Slovenia che in Croazia l'iniziativa italiana fu etichettata, dalle componenti più nazionaliste, tutt'altro che irrilevanti politicamente in quei paesi, come un tentativo di riaprire vecchi contenziosi sull'italianità di Istria e Dalmazia.
Accuse respinte con sdegno e decisione da Roma, ma forse ad alimentare i sospetti c'era anche il fatto che quella politica di riconoscimento della cittadinanza italiana agli emigranti sparsi sui cinque continenti e agli ultimi epigoni delle comunità italiane di Istria e Dalmazia fu portata avanti e sostenuta vigorosamente soprattutto dalla destra postfascista. Vale la pena di ricordare in proposito che il politico che più si spese per ottenere quelle modifiche alle leggi sulla cittadinanza fu l'onorevole Mirko Tremaglia, ex combattente della Repubblica Sociale Italiana, esponente storico dell'Msi, poi transitato al seguito di Gianfranco Fini in Alleanza Nazionale. Lo stesso Tremaglia, proprio negli anni in cui si compiva la svolta sulla cittadinanza concessa agli emigrati e agli appartenenti alle comunità italiane di Slovenia e Croazia, si segnalava per un'uscita che fece rumore. Propose infatti di rivedere i termini del trattato di Osimo, siglato nel 1975 da Italia Jugoslavia per chiudere definitivamente la partita diplomatica con i drammatici avvenimenti del secondo dopoguerra. La revisione degli assetti postbellici confine orientale è stato uno dei cavalli di battaglia dei neofascisti missini nei decenni passati. L'altro, sia detto per inciso, è stato quello della cancellazione del primo e del secondo statuto di autonomia per il Trentino Alto Adige, considerati dai seguaci di Giorgio Almirante, come un infame tradimento degli italiani e dell'Italia.
Se si collocano in questo contesto le politiche di revisione dei criteri per ottenere la cittadinanza italiana attuate dall'inizio degli anni 90 in poi, il sospetto che dietro di esse qualcuno potesse evocare anche in qualche misura la revisione dei confini o comunque dei rapporti politico diplomatici tra l'Italia e i suoi vicini è meno fantasioso di quel che si potrebbe pensare.
Diviene meno sorprendente che la stessa logica sia stata recuperata e messa in atto dagli esponenti della Südtiroler Volkspartei che "mutatis mutandis" hanno rigirato la frittata ed hanno inoltrato a Vienna la richiesta di recuperare per i sudtirolesi (ma solo per quelli dotati di apposito certificato di autenticità) la nazionalità persa nel 1919, quando, per effetto dei trattati di pace passarono sotto la sovranità del Regno d'Italia.
Naturalmente la discussione su analogie e differenze tra i ventimila italiani sparsi tra Istria e Dalmazia e i trecentomila sudtirolesi concentrati sul confine del Brennero e dotati di un'autonomia quasi totale è tutt'altro che oziosa e ciascuno può facilmente immaginare i possibili sviluppi di questa situazione che peraltro i secessionisti della destra sudtirolese non mancano ogni giorno di disegnare con crescente entusiasmo.
Resta però il fatto che anche questo capitolo della querelle politica altoatesina può essere opportunamente collocato in un contesto più vasto: quello della differenza fondamentale tra due visioni del mondo, della politica, dei diritti e dei valori umani. Da un lato i teorici dello "ius sanguinis", della revisione dei confini dei trattati, della rimembranza perenne di antiche ferite ed i vecchi torti, della rinascita delle barriere tra nazioni, tra lingue, tra gruppi. Dall'altro chi invece si batte per lo "ius soli", per l'inclusione nelle comunità di tutti coloro che, a prescindere dalla lingua e della cultura, vi operano e vi lavorano. Chi si batte per il diritto fondamentale di ogni individuo di veder salvaguardata la propria lingua e le proprie radici, ma in un contesto sempre più allargato, nel quale i confini siano ombre tratteggiate sui libri di storia e i passaporti degli strumenti di inclusione di chi fugge dalla fame e dalle guerre e non di separazione.