Cultura | Salto Gespräch

"Così è nato Tango Macondo"

Ripubblichiamo l'intervista a Paolo Fresu in cui racconta la genesi dello spettacolo del Tsb che ora va in scena a Trento fino al 15 gennaio 2023.
Paolo Fresu a Salto.bz
Foto: (c) Othmar Seehauser

* Sono da poco scoccati i suoi primi 60 anni, fino ad oggi ha viaggiato in lungo e in largo per terra e per aria, ha suonato per un pubblico divenuto ormai sterminato, ha composto chilometri di spartiti destinati alle arti più diverse, si è abbandonato ai piaceri della scrittura, dirige da 35 anni il Festival Time in Jazz a Berchidda,  è direttore artistico (fondatore) dell’etichetta Tuk Music - una felice amalgama di giovani talenti musicali impreziositi dall’arte visiva di grafici e fotografi -, eppure Paolo Fresu non si esaurisce qui.  Dopo averlo ascoltato in un’intervista che sarebbe stato bello non terminasse prima di sera, viene da aggiungere che la sua è la voce di un uomo, un artista, dall’intensità sottile, dalla curiosità frizzante e dalla grande generosità di pensiero. Non viene per nulla difficile immaginare che sia la sua musica a intonare “Tango Macondo”, la prima nuova produzione di questa stagione tanto attesa del Teatro Stabile di Bolzano, la storia di Matoforu, un “venditore di metafore” sardo e del suo amore grande, Anzelina Bisocciu, la sua cantatrice. Accomunati dalle origini in terra sarda il venditore di metafore e il trombettista incarnano quel qualcosa, che ci rende veri cittadini del mondo. Tango Macondo, scritto e diretto da Giorgio Gallione, andato in scena a Bolzano per la prima volta giovedì 28 ottobre 2021, dopo aver girato in tutta la Penisola, approda ora a Trento dove è in scena tutti i giorni dal 12 al 15 gennaio al Centro Santa Chiara (il 12 e il 13 inizio ore 20.30; il 14 alle 18.00 e il 15 alle 16.00).

Salto.bz:  Come nasce l'idea di questo spettacolo?

Paolo Fresu: Come nasce l'idea… tre anni fa feci a Bolzano la mia prima esperienza teatrale, che si chiamava “Tempo di Chet”, con in scena 8 attori che interpretavano più di 40 ruoli diversi e 3 musicisti. Ero abbastanza spaventato da questa esperienza, erano anni che Walter Zambaldi insieme a Vittorio Albani, il mio agente da sempre nonché amico, mi chiedevano di imbarcarmi in uno spettacolo teatrale, ma immaginavo il Teatro un mondo complesso, il mettere insieme linguaggi diversi, con un tempo di prove molto lungo e tutta una serie di cose che, soprattutto noi musicisti di jazz, utilizziamo veramente poco. Poi c'è una tournée da fare, decine e decine di date, una settimana in ogni città, insomma con un modo di lavoro che è completamente diverso da quello di noi musicisti, per cui un giorno siamo a Berlino, il giorno dopo a Palermo, quello dopo a Parigi e il giorno dopo ancora in un paesino di duemila abitanti. Un'attività schizzata, che a me personalmente piace moltissimo, e che mi permette di lavorare con progetti diversi. A Berlino magari suono con il mio trio, poi a Palermo con il quartetto e quello dopo con un altro progetto ancora. Tre anni fa però, parlandone con Walter e Vittorio, in procinto di arrivare ai 60, dopo migliaia di concerti in giro per il mondo, ho pensato “Beh, anche un'esperienza teatrale bisogna farla”, se non altro perché qualsiasi cosa nuova va fatta. Credo che sia la curiosità quella molla che ci spinge a fare. Quando una cosa non la conosciamo, il fascino è metterci le mani dentro per capire di che cosa si tratta. E quindi ho detto “Bene, facciamo un lavoro teatrale”. E Walter Zambaldi mi dice “Sì, va bene, siamo contenti, ma cosa facciamo?” “Ma come? Devo deciderlo io?” “Sì!”Allora mi sono preso un po’ di tempo per pensarci e ho proposto un lavoro teatrale su Chet Baker, che non era mai stato fatto prima nel mondo. Ci sono tanti reading su Chet, ma non un lavoro teatrale composito come quello che abbiamo realizzato con la regia di Leo Muscato, con attori e una grande scenografia, con un mese di produzione per cui siamo stati fermi in questa città. Poi abbiamo fatto 110 repliche in due anni, ho dovuto lasciare la mia attività dei concerti e l'ho fatto molto volentieri, è stata un’esperienza entusiasmante.

Ma da Chet, e quindi dal jazz, come si è arrivati a Tango Macondo?

Passati tre anni Walter ripassa all'attacco e mi dice “Beh, facciamo un altro lavoro”. Volentieri, ero talmente felice del primo! E quindi “Cosa facciamo?”  Allora decidiamo di partire dalla Sardegna questa volta, con un progetto totalmente diverso da quello di Chet Baker, che forse ha meno a che fare con il jazz, ma non è questa la cosa più importante. Avevo letto molti anni fa, proprio in un viaggio tra Roma e Buenos Aires, un libro di un amico giornalista sardo, Giovanni Maria Bellu, “L'uomo che volle essere Peròn”. Il libro mi aveva molto colpito,  e racconta la storia, in parte vera, che a Mamoiada, paese nel centro della Sardegna conosciuto per il carnevale e per il bellissimo museo delle maschere, vivesse Giovanni Piras. Giovanni a un certo punto sparisce, parte, arriva in Argentina e a Mamoiada si narrava che Juan Perón fosse Giovanni Piras. Il libro è scritto benissimo, la storia è fantastica, nel tempo è stata smontata, ma rimane in quel mito che ho trovato molto bello. Ho invitato Walter e Vittorio a leggere il libro e siamo però convenuti sul fatto che fosse una sorta di giallo molto bello, ma che probabilmente non avrebbe potuto reggere a teatro, che ha un altro tempo e un altro linguaggio. Però da lì siamo partiti, perché Tango Macondo, pur non avendo a che fare con il libro di Giovanni Maria Bellu, nasce da un altro libro di un carissimo amico, Salvatore Niffoi, che si intitola “Il venditore di metafore”. Il racconto non ha una geografia identificabile, e noi l'abbiamo identificata in Mamoiada, il paese del rito, delle maschere e del carnevale. I suoi due personaggi,  Matoforu e Anzelina, a un certo punto della loro vita decidono di fare i venditori di metafore e girare per la Sardegna. Si fermano nei paesi e raccontano, il racconto diventa la loro vita, lasciano la Sardegna per partire verso l’ Argentina. Il lavoro parte quindi dal libro di Salvatore, che ha una scrittura onirica molto simile a quella degli scrittori sudamericani come Marquez, Borges e si arriva in Argentina dove diventa il Tango Macondo, Macondo il paese immaginario di Marquez. Lì nasce una serie di storie che sono dei quadri onirici, che raccontano una storia che non esiste, ma teatrale proprio per questo. Giorgio Gallione, regista di questo spettacolo, ha disegnato una storia dove vi si riconosce Marquez, Borges, ma anche altro, con tutta una serie di riferimenti linguistici e dialettici che formano questo grande racconto. Ovviamente il Tango è presente e non è presente, di fatto nello spettacolo ci sono anche tre tanghi, con una scena fantastica di Marcello Chiarenza, un artista che ha creato una immaginifica scena di oggetti e materiali che dialogano con i tre attori, tre danzatrici e un danzatore. E’ un lavoro composito in cui la letteratura immaginaria e immaginifica sarda-sudamericana si incontra e si scontra con altri linguaggi costruendo un racconto fantastico.

 

La musica come si inserisce nello spettacolo?

Musicalmente ho scelto due strumenti oltre la tromba, entrambi a mantice. Uno è il bandoneon che riporta immediatamente all'Argentina, seppure Daniele di Bonaventura non sia un bandoneonista che suona il tango. L’altro strumento invece è l’organetto sardo, quello che serve per accompagnare i balli tradizionali della Sardegna nelle piazze. Quindi questi due strumenti rappresentano le due geografie sulle quali lavoriamo. La tromba, invece, nel mio immaginario, è un po’ quell’oceano gigante che nei primi del Novecento i piroscafi attraversavano da Napoli e da Genova per approdare nell'altro mondo e che rappresentava la speranza, il mito.

Il tema del viaggio raccoglie questo spettacolo, il viaggio tra le culture, i continenti, così come all’interno delle diverse espressioni artistiche, per te invece il viaggio che cos’è? Ho letto che tu in viaggio crei…

Io non posso fare a meno di viaggiare!

Ci raccontavi del grande cambiamento che ha significato fare teatro, questo ti avrà privato di questi momenti.

Certo, però è anche vero che si può viaggiare da casa. In questo ultimo anno ho viaggiato tanto, come tutti credo, perché mi sono inventato degli altri viaggi. Per me il viaggio è importantissimo, e non solo perché in viaggio appunto produco tanto. Creo i programmi del mio festival in Sardegna, scrivo intere partiture in aereo. Le musiche di  “Il più crudele dei giorni”, il film sulla tragica vicenda di Ilaria Alpi diretto da Ferdinando Vicentini Orgnani con Giovanna Mezzogiorno, furono scritte, o perlomeno appuntate, in un unico viaggio tra Parigi e Olbia. Poi scrivo, prendo appunti di vario tipo e mi piace molto leggere.  I miei collaboratori hanno una paura folle dei miei viaggi intercontinentali, quando arrivo dall’altra parte del mondo scendo dall’aereo con 400 progetti, perché poi secondo me, quando sei a ottomila metri d'altezza, il pensiero cammina più veloce. Però c'è un altro aspetto del viaggio che è molto bello e che è molto importante. Quando sei è in viaggio, sei in un momento di solitudine interiore, in cui hai un sacco di tempo non solo per pensare e scrivere, comporre e leggere, ma anche per guardare gli altri. Io in aereo guardo le persone, quando vedo uno che entra penso “chissà dove starà andando”. Anche quando sei in aeroporto per ore, quel momento è molto importante perché ti metti in relazione col prossimo, anche se è una relazione univoca, quella osservazione fa sì che tu ti senta parte di un pensiero più importante. E questa è la cosa, posto che si possa viaggiare senza prendere un aereo, che mi è mancata nell'anno in cui ero a casa. Diciamo che per una serie di ragioni, il viaggio ti fa sentire vivo. Quando viaggi sei in un luogo di nessuno, sei partito da un luogo, ma quel luogo non c’è più, devi andare in un altro luogo e quel luogo ancora non c'è. Sei in una sorta di bolla che, sotto il profilo creativo, ciò che mette in moto è molto interessante. Poi nel mio caso c'è un doppio significato, io non vedo l'ora di viaggiare perché sto bene in viaggio, ma viaggio anche per fare una cosa che amo. Quindi non solo quel momento di bolla è importante perché ti senti bene con te stesso, ma è anche l'anticamera di un altro viaggio. Arrivi in un'altra città, sali sul palcoscenico, suoni per qualcuno, suoni per qualcosa.

In questo errare, cosa ti porti dietro della tua terra? Nella tua musica o, meglio, nel tuo suono c'è un’impronta della Sardegna? E se c'è qualcosa, la riconosci?

Sicuramente c'è, soprattutto nel suono di una tromba, che è lo strumento più vicino alla voce umana. Nel pianoforte ciò che vibra sono le corde dentro lo strumento. La tromba invece bisogna metterla sulle labbra, suonarla significa cantare dentro lo strumento. Il rapporto con la voce umana è molto vicino e non è casuale che nella storia del jazz i più grandi trombettisti siano stati anche dei grandi cantanti. Penso a Louis Armstrong, a Chet Baker, a Clark Terry, Don Cherry. Suonare la tromba è come cantare, quando avvicini lo strumento alle labbra, di fatto hai un rapporto vero con lo strumento, è un rapporto fisico. Questo fa sì che il suono sia la tua carta d'identità. Miles Davis suonava con la tromba rivolta sotto la poltrona, Dizzy Gillespie suonava per l'ultimo della sala, tanto che si era fatto costruire una tromba periscopica, come lui la chiamava, con una campana girata verso l’alto. Il mito dice che la tromba fosse stata investita da una macchina, secondo me lui voleva semplicemente avere uno strumento diverso. Questo per dire che Miles con una personalità chiusa suonava con un suono scuro, rivolto verso il nulla, apparentemente non aveva bisogno di comunicare con gli altri. Dizzy Gillespie invece era uno scoppiettante, aveva un suono molto più aperto e voleva comunicare con l’ultima persona della sala.

Il suono dice molto sulla personalità di chi suona, in sintesi.

Il suono è la rappresentazione di quello che noi siamo. Se il suono è la nostra carta d'identità, ci rappresenta totalmente e quello che noi costruiamo, perché il suono si costruisce di giorno in giorno, il mio suono di oggi è diverso da quello di anni fa, perché fisicamente io sono cambiato e perché ho trent'anni di più. Tutto questo fa sì che il nostro suono sia quello che noi stessi siamo. Mi è capitato alcune volte, dopo un concerto, che sia venuto qualcuno a dirmi “Si sentiva che nel tuo suono c'era dentro la Sardegna”. In passato ci sono stati dei progetti legati alla Sardegna, con repertori e strumenti che avevano in qualche modo a che fare con la tradizione. Ma nella mia musica di oggi, la maggior parte dei soggetti non hanno niente a che fare con la Sardegna, ma neanche a cercarla con il lanternino. Eppure quando alla fine di un concerto qualcuno viene e ti dice “si sentiva dentro la Sardegna” è perché evidentemente il suono è prepotentemente capace di raccontare quello che siamo. E quindi penso che la Sardegna ci sia, c'è il vissuto, perché lì sono nato, il sardo è la prima lingua che ho appreso e che parlo correntemente tutti i giorni, con le persone del mio paese, con la mia famiglia, con mia mamma. Io vengo da una famiglia di contadini e di pastori, e tutto quel vissuto lo porto appresso inevitabilmente e nel momento in cui hai uno strumento così intimo, non può non uscire fuori. Che tu lo voglia o meno. Non sono la tipologia di sardo che vuole necessariamente dire di essere sardo, o che quando viaggia si porta la sua salsiccia e il suo formaggio. Mia madre quando veniva nella prima casa che ho avuto sull'Appennino tosco emiliano, si portava il sale e lo zucchero, perché lì faceva dolci, le seadas, e diceva che zucchero e sale come quelli della Sardegna nel continente non ce n’erano. Insomma non sono tra quelli che pensano che i sardi siano i migliori del mondo, ma neanche penso che quelli che vengono da fuori siano i migliori del mondo.  Noi siamo migliori in molte cose, ci sono molte cose che dobbiamo totalmente limare e cambiare, come in giro per il mondo ci sono tante persone straordinarie e altrettante che non lo sono. Semplicemente sono un sardo ad armi pari, che si porta appresso le cose buone della nostra isola e che mi sono state insegnate, soprattutto dalla famiglia, sapendo però che ci sono anche tante cose che non mi piacciono. In giro per il mondo ci sono tante cose che amo enormemente, le porto a casa e poi le innesto, imparando tanto. Per tornare all'argomento del suono, non sono il sardo che declama, ma alla fine so di esserlo, per come mi comporto, per come parlo e non solo perché ho una fede sarda al dito da decenni, ma sono uno che vuole raccontare semplicemente quello che è, un cittadino del mondo con molti volti. Seppure, se un giorno dovessi decidere dove tornare, probabilmente quel posto sarebbe la Sardegna, perché quello è il luogo dell’anima.

Dopo tutto il girovagare, il tuo girovagare, il richiamo è quello delle origini. Qui arriva la domanda obbligatoria, sul tuo rapporto con Bolzano. Probabilmente il tuo legame con il tuo manager, Vittorio Albani, che è di Bolzano, ha fatto da collante, ma di fatto tu qui torni spesso. Ci stai bene?

In questi anni, durante questi due lavori teatrali, il tempo di permanenza in città è stato molto lungo, questo mi ha permesso di conoscerla meglio e anche di apprezzarla di più. A me piace molto Bolzano, in questo momento la trovo particolarmente viva, sarà perché abito in pieno centro dove c'è una grande vitalità giovanile che trovo interessante. Diciamo che è una città che mi piace. Tre anni fa a un certo punto stavo quasi decidendo di comprare una casa a Bolzano, poi non l’ho fatto, ma è vero che è una città che ho imparato ad apprezzare vivendola, nel bene e nel male. Quando sono andato ad abitare a Parigi alla fine degli anni ottanta, per me era vivere un sogno. Molti musicisti andavano a Parigi perché era un po’ la Grande Mela europea, già negli anni cinquanta-sessanta i musicisti americani passavano a Parigi e ci vivevano anche per diverso tempo. Miles Davis vi fece un disco “Ascensore per il patibolo” e per un periodo si fidanzò con Juliette Gréco. Dexter Gordon vi abitò, quel bellissimo film che si chiama “Round Midnight” di Bertrand Tavernier fu girato al Blue Note. Insomma, Parigi era un po’ la capitale europea del jazz e molti musicisti ci andavano per provare a fare strada. Lì si incontravano molti più artisti di quanti non si incontrassero in Italia, era una città cosmopolita più di quanto non lo fosse qualsiasi città italiana, era un crogiolo di razze. Io invece a Parigi ci andai perché volevo vivere la città. Ovvio che poi abitandola, ho imparato molto, si sono creati molti rapporti di lavoro, c’era l'opportunità di avere una dimensione più internazionale. Cosa c'entra con Bolzano? C'entra il fatto che quando si abita un luogo per diverso tempo, se ne conosce meglio il lato positivo ma anche quello negativo, che di Bolzano ancora non conosco perché non sono arrivato a quel punto. Ma per quanto riguarda Parigi, io ci sono andato innamorato folle, ma devo dire che con l'andare degli anni ho un po’ perso quell’innamoramento. Perché oggi la conosco più di quanto non la conoscessi allora. Naturalmente continua l’innamoramento, Parigi è la città più bella del mondo, ma ne conosco i difetti. E quindi Bolzano, per ora, in questo stato mi piace.

Sei ancora nella prima fase di conoscenza!

Sì, e forse la seconda fase non la conoscerò mai, ma va bene anche così. E poi, soprattutto questa volta, dopo la pandemia e dopo aver ripreso quest'estate l'attività dei concerti, per me fortunatamente intensa, stando un mese in un luogo vivi una sorta di normalità, in cui sì ti manca il viaggio, ma puoi costruire un ritmo che non hai mai avuto nella vita, è interessante. Perché appartiene a quel nuovo di cui parlavamo prima, a quella curiosità per cui tutto quello che è novità, a me piace. La novità ti rende frizzante e per me questo mese con un tempo più dilatato, non è un caso. Siamo qui dal 27 settembre, esattamente dalla fine della lunga tournée estiva, in cui sono successe molte cose. Ho fatto un festival jazz a Berchidda, con determinazione e con coraggio e con forza, quindi fermarmi e vivere con un ritmo totalmente diverso è interessante. Poi c'è la curiosità di un lavoro teatrale che nasce di giorno in giorno, perché quando siamo arrivati qui non sapevamo nulla, non conoscevo gli attori, né i danzatori.

Qual è stato il tuo lavoro preparatorio dello spettacolo?

Dall’anno scorso mi sono incontrato più volte con Giorgio Gallione per decidere cosa fare, lui ha lavorato al testo, ci siamo visti, l'abbiamo letto, ne abbiamo parlato e io poi ho scritto la musica che abbiamo registrato già a metà settembre, perché volevamo avere il disco in occasione degli spettacoli.

Fresu racconta Tango Macondo/1

 

Nel disco a interpretare i tanghi sono tre voci italiane straordinarie, quella di Tosca, Elisa e Malika Ayane. Come nasce questo intreccio?

Sono stato io a chiamarle. Nello spettacolo ci sono tre tanghi bellissimi di Gardel che da copione sono cantati dagli attori. In studio abbiamo registrato i tanghi e tutti gli altri brani che accompagnano lo spettacolo, ed è venuta l'idea di dare ognuno dei tanghi ad una voce femminile italiana. Ne ho parlato con Tosca, Malika Ayane ed Elisa, che per me sono tre cantanti immense nella loro diversità, e loro incredibilmente hanno accettato con trasporto di farne parte. Noi abbiamo registrato in studio a Udine, ho spedito ad ognuna di  loro le basi registrate, perché non erano con noi, e loro nel proprio studio hanno aggiunto la propria voce che mi è stata riportata e che io poi ho mixato. E’ un lavoro che abbiamo fatto a distanza, piuttosto complesso. e ognuna di loro ha cantato in una maniera divina. Quello che ne esce fuori è un affresco di tre mondi completamente diversi. Un brano è “Volver”, cantata da Elisa. Tosca canta un tango magnifico, delicatissimo, poetico che è “El día que me quieras” e Malika “Alguien le dice al Tango”.  Con loro questi tre tanghi diventano delle canzoni potrebbero essere benissimo canzoni napoletane dell'Ottocento, li cantano con quel trasporto italiano, mediterraneo, che fa sì che siano dei tanghi mai sentiti. In seno a “Volver” sembra che da Buenos Aires ci si trasferisca a Mamoiada, grazie al cameo sardo di Pierpaolo Vacca, l’organettista. Gli altri sono quasi due ballate, molto delicate.

Tosca with Paolo Fresu - El día que me quieras Official Video (feat D. di Bonaventura), per Paolo Fresu

 

Ora faccio una domanda che mi ha suggerito mia figlia, di 17 anni. Con chi ti piacerebbe uscire a cena? Non deve essere necessariamente una persona ancora in vita.

Andrei a cena volentieri con Miles, se non altro perché mi è rimasto un groppo in gola.  Chet Baker l'ho conosciuto, perché nell'83 suonai Festival Jazz di Sanremo, un festival abbastanza importante in quegli anni. Era uno dei miei primi concerti importanti della vita, andarci era come toccare il cielo con un dito e suonai nella sala del Casinò di Sanremo. Vidi che nel manifesto del festival c’era Chet Baker che suonava il giorno dopo, tremante feci il mio concerto, che andò abbastanza bene, e alla fine, mentre si stavano già spegnendo le luci della sala e stavo deponendo gli strumenti nella mia custodia (ormai ne ho un ricordo cinematografico a cui ogni volta aggiungo un pezzettino), vedo arrivare dallo sfondo della sala una silhouette, che molto lentamente viene verso di me. E già questo mi preoccupava. Poi vedo che è Chet, e allora ho iniziato a tremare come una foglia. In un italiano neanche troppo stentato mi fece i complimenti per la versione di “Round midnight”, un brano che in quel periodo mi piaceva molto suonare. Io non dissi una parola, forse Grazie (spero), e con la stessa lentezza con la quale è venuto verso di me, è riscomparso nel buio. Questa storia la racconto sempre perché Chet era considerato un figlio di buonadonna, che trattava male tutti, non pagava i musicisti, ma devo dire che con me è stato un grande signore. Ero un ragazzino di 24 anni e Chet Baker, uno dei più grandi trombettisti della storia è venuto a farmi i complimenti. Miles invece ho rischiato di conoscerlo. Era la fine degli anni ’80, insegnavo a Terni alla Jazz University, e Umbria Jazz vi organizzò un concerto di Miles. Il direttore di Umbria Jazz, Carlo Pagnotta, mi diede un biglietto. Il concerto fu magnifico, mi ricordo ancora come erano vestiti, che pezzi avevano fatto, io ero un grande appassionato della musica di Miles ed era la prima volta che lo vedevo dal vivo. Alla fine del concerto Carlo Pagnotta mi vide e mi disse “Vieni che te lo presento” e io sono scappato come un ladro. Mi ricordo che presi la macchina verso Bologna e vidi sull'autostrada passare una Mercedes di quelle nere, grandi e pensai “Lì sicuramente c’è Miles”. Insomma avrei avuto l'opportunità di conoscerlo, magari di dirgli anche solamente quanto la sua musica fosse per me importante e non l'ho fatto. Quindi, dovessi andare a cena con qualcuno, andrei a cena con Miles e gli racconterei prima tutta la storia di Chet, anche se non so come fossero i rapporti tra i due. E poi gli racconterei di come lui sia stato fondamentale per la mia vita, non solamente sotto il profilo dello strumento. Entrambi erano degli strumentisti straordinari, ma mentre Chet era un poeta della tromba, un cantante straordinario, non ha comunque rivoluzionato la storia del jazz. Toccava qualsiasi standard e questo diventava un capolavoro. Miles invece non è stato solamente un grande trombettista, ma ha portato il jazz dove oggi noi siamo,  è stato uno scopritore di talenti, ha cambiato pelle mille volte. Nella immensa discografia potremo nominare tre o quattro dischi di Miles come “Kind of Blue”, piuttosto che “Porgy and Bess” o “Decoy” per cui se non ci fossero, la storia della musica odierna, non solamente del jazz, non sarebbe la stessa. E’ stato un visionario e uno sperimentatore. Per me Miles è come Picasso o come Fellini, una figura che travalica il proprio linguaggio per diventare un grande attore del Novecento. Ecco cosa gli avrei detto a cena, tra un primo e un secondo.