La parola "Lager"
Una delle descrizioni più note di cosa siano stati i campi di concentramento nazisti si trova, come noto, nel libro di Primo Levi “Se questo è un uomo”. A pagina 35 dell'edizione Einaudi (la posseggo datata 1983) si legge: “Moltissime cose ci restano da imparare, ma molte le abbiamo già imparate. Già abbiamo una certa idea della topografia del Lager; questo nostro Lager è un quadrato di circa seicento metri di lato, circondato da due reticolati di filo spinato, il più interno dei quali è percorso da corrente ad alta tensione”. Non c'è bisogno di proseguire, il libro è accessibile a chiunque. Quello che qui preme attestare è solo questo: se usiamo la parola tedesca “Lager”, contrazione del composto “Konzentrationslager”, è chiaro che in lingua italiana intendiamo un “campo di concentramento” nel quale i prigionieri venivano fatti confluire per esservi reclusi e venire torturati fino alla morte, in molti casi anche per essere annientati in modo sbrigativo (un'altra parola tedesca è infatti “Vernichtungslager”, vale a dire “campo di sterminio”).
Le parole dovrebbero essere sempre usate con precisione, evitando di attribuire a fenomeni distanti nel tempo e di costituzione diversa la stessa denominazione
Le parole dovrebbero essere sempre usate con precisione, evitando di attribuire a fenomeni distanti nel tempo e di costituzione diversa (anche se magari “simile”) la stessa denominazione. Chi adotta la parola “Lager” per descrivere ad esempio altre tipologie di centri di detenzione (dalle carceri più severe, ai vecchi manicomi, fino ad esperienze più recenti come possono essere i Cie (Centri di identificazione ed espulsione), non dovrebbe cedere alla tentazione di assimilarli senza residui ai “Lager” nazisti perché – per quanto le condizioni vigenti possano essere estreme o persino disumane – essi non risultano esplicitamente progettati con la finalità perseguita dai Vernichtunslager.
Il tema del linguaggio da usare per descrivere certi fenomeni è stato sollevato di recente dal Consigliere comunale della Lega Nord Carlo Vettori, il quale sul suo profilo Facebook si è riferito a un intervento di Chiara Rabini (referente della Giunta comunale di Bolzano per le tematiche inerenti l'immigrazione) accusandola di aver impropriamente definito “Lager” alcuni centri di accoglienza: “La referente Rabini – ha scritto Vettori – ha paragonato a dei Lager i centri d’accoglieza aperti in città. Oggi è stato passato il segno. Paragonare i centri profughi ai luoghi dove si è consumato l’Olocausto è inaccettabile”. Se Rabini avesse effettivamente paragonato i centri d'accoglienza a dei Lager, avrebbe senz'altro fatto un errore. Ma cosa ha detto Rabini? Sul suo blog esiste la trascrizione integrale dell'intervento. Estrapoliamo il passo che ci serve: “Non dobbiamo abituarci nemmeno, anzi dovremmo continuamente indignarci, delle condizioni inaccettabili di vita nei nostri centri di accoglienza o meglio ex magazzini, che stanno in piedi grazie all’umanità e impegno degli operatori che vi lavorano e alla pazienza dei richiedenti asilo costretti a vivere in spazi senza finestre e in lettini a castello senza privacy”.
La parte evidenziata è quella che ha tratto in inganno Vettori, il quale forse (è l'unica ipotesi possibile, volendo escludere la malafede) si è appoggiato a una sbrigativa traduzione in tedesco della parola (“magazzini” si può in effetti tradurre con “Lager”). Richiesta di dare ulteriori spiegazioni, Rabini ha comunque negato che il suo intento fosse quello di stabilire un parallelismo o una sovrapposizione, seppur tragicamente evocativi: “Non era assolutamente nelle mie intenzioni”.
L'evocazione del Lager come paradigma del Male supremo è ricorrente e doppiamente impropria
In un libro uscito in questi giorni, ne raccomandiamo a tutti caldamente la lettura, c'è un capitolo dedicato proprio all'uso del termine “Lager” a proposito di contesti distanti da quello originario: “L'evocazione del Lager come paradigma del Male supremo è ricorrente (lo si sente usare persino per descrivere le crudeli condizioni di certi canili illegali) e doppiamente impropria. Per un verso, perché rischia di banalizzare quello che è stato davvero l'orrore assoluto, ossia la Shoah, riducendola a un'etichetta buona per troppi usi, immiserendone l'eccezionalità e, dunque, l'intollerabilità etica. Per altro verso, il ricorso a quel termine estremo (e non solo a quel termine, ovviamente) rivela il rischio di una qualche forma di indifferentismo: quasi che tutto ciò che si colloca – oggettivamente, per così dire – al di sotto della misura del Lager sia, per ciò stesso, accettabile o comunque, alla resa dei conti, sopportabile” (Luigi Manconi, Federica Resta, “Non sono razzista, ma - La xenofobia degli italiani e gli impresari della paura”, Feltrinelli 2017) .
Se Vettori non avesse innescato una polemica linguistica fittizia, avrebbe magari evitato di darci l'impressione che per lui, tutto sommato, le condizioni di quei centri non sono poi così inaccettabili. Per una certa parte politica, l'“inaccettabilità dei centri di accoglienza” è infatti un tema da cavalcare a patto di minimizzare i problemi di chi ci vive, amplificando al contempo il malessere di chi abita nei loro paraggi. Non avendo mai inteso paragonare i centri di accoglienza a dei Lager, invece, nel caso specifico Rabini può essere assolta dall'accusa di essere incorsa nel vizio opposto, peraltro non infrequente a sinistra, giacché se ci si limita a rimarcare in modo oggettivo le “inaccettabili condizioni di vita” presenti negli “ex magazzini”, è chiaro che la preoccupazione si estenderà anche gli abitanti della zona, anch'essi costretti a pagarne le conseguenze.