J.Glenn Gray Guerrieri Fondazione Museo Storico Trentino

Prima traduzione italiana di un eminente saggio di un autore sul quale Hannah Arendt aveva più volte riflettuto.
I temi della guerra si intrecciano all'essenza dell'uomo nel rapporto amico/nemico, alla solitudine, al sesso, alla morte, nel dramma lacerante del conflitto che ci rende migliori e peggiori di ciò che siamo in condizioni umane cosiddette normali.
Una riflessione profonda in un tempo di pace che sembra annunciare in lontananza il rumore sordo della battaglia.
Una sorta di richiamo nel tentativo di riaffermare un decente grado di umanità in una società malata di personalismi improduttivi.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: LPA/Tiberio Sorvillo

Giunge meritoria la prima traduzione italiana dell'importante saggio di J.Glenn Gray "Warriors" (Guerrieri, considerazioni sull'uomo in battaglia con traduzione e note critiche di Enrico Maria Massucci, edito a cura della Fondazione Museo Storico del Trentino, pp.291, Trento 2013), un autore sul quale Hannah Arendt ha posato più volte la sua attenzione, sopra riflessioni quali "Understanding Violence Philosophically", "Splendor of the Simple", "Poets and Thinkers".

Sono pagine pregnanti quelle di "Guerrieri", che traggono origine da un continuo approfondimento interiore e filosofico, e da una rilettura ragionata del proprio diario di guerra, riemerso nella coscienza vigile di un protagonista diretto della seconda guerra mondiale.

Un tempo prolungato di pace può essere davvero adatto e illuminante per calarsi in un testo che conduce attraverso la profondità razionale dell'animale uomo,  lungo l'asse pervasivo della memoria e della mente. Strumenti che non assicurano, in tempo di guerra, il dono del distacco, ma che sostanziano un duplice piano prospettico del durante e del dopo. Ecco allora che siamo in presenza di consapevolezze in nuce capaci di di focalizzare "qualcosa di sbagliato, terribilmente sbagliato", definendo in una luce più chiara "il carattere mostruoso della civiltà moderna", una sorta di tratto impersonale che svilisce ogni grado di umanità.

Vi è il riconoscimento in questo saggio, tradotto con straordinaria efficacia, che la Storia a un certo punto soffoca l'uomo nelle proprie contraddizioni insolute e trascurate, lo piega lungo una narrazione che non può essere solo la propria, mentre egli stesso la sta dettando nella piena adesione all'orrore del conflitto, divenendo nella "banalità del male" un dramma incarnato in una ricerca di senso ultimo.

Ciò che un filosofo cattolico come Jaspers riconosceva come insondabile e viscerale scandaglio muto di fronte all'inumano in una entità vivente, produceva un cambiamento irreversibile nel fascino eterno della battaglia, tra memoria e oblio, nel luogo stesso degli accadimenti, come cancellazioni che lasciavano posto a emozioni più forti e oscure, e dove la forza diventava qualcosa di diverso dalla violenza. "Anche io appartengo a questa specie. Mi vergogno non solo delle mie azioni, non soltanto della mia nazione, ma anche delle azioni dell'umanità. Mi vergogno di essere uomo." scrive Glenn Gray.

Lo stato di eccezione scarnifica l'uomo, lo trasforma nel suo essere soldato tra i soldati (come dimenticare gli episodi di cannibalismo già nella guerra dei Trent'anni, solo per fare un esempio). "Das Essen ist die Hauptsache", la tirannia del presente, lo riduce all'essenziale, lo schiaccia inesorabilmente a soggiacere immoto (il latinismo elegante appare tragico nel richiamo manzoniano), bestia tra le bestie, dove l'occhio domina come senso omnicomprensivo di una persona che ha perso per strada il significato della sua presenza-essenza. "Il sentimento di momentanea depressione" impone in una percezione di cameratismo solidale una specie di solidarietà licenziosa, un richiamo primitivo alla caduta, al sacrificio, all'annullamento dell'uomo per l'uomo.

Glenn Gray scrive pagine lucide sull'energia molteplice e irradiante del sesso nei contesti bellici, una parvenza appena labile la si poteva cogliere nello stanco esercizio della ferma annuale di un militarismo ormai in declino, con il rischio parossistico e ripetuto della prevaricazione più traculenta e abusata, nel gioco perverso degli istinti rubati. Eppure proprio nella guerra si può offrire la vita anche per un amico, un esempio emblematico, una forma schietta e dura che prende forma nel pericolo, dove l'amicizia può essere insostituibile, a volte più di un amore, afferma l'autore.

Glenn Gray sembra assegnare all'amore un disegno di fratellanza universale, un esplicito e concreto compito di redenzione dell'umano a lunga scadenza, rivelatore di ogni superamento, di ogni difficoltà: fatica, disprezzo, morte. "I giorni passano e io patisco più il tedio e la fatica della guerra. La strada è ancora lunga e mi trovo spesso a interrogarmi sul senso di tutto questo, del continuare a vivere. Può esserci una ragione profonda in questo, avvertita solo alla fine del viaggio. In qualche modo, è quello che penso." La speranza giace dentro di noi, la stessa morte è un cambiamento possibile che ci viene offerto.

Sembrano risuonare alcune battute nell'atmosfera del "Diario di trincea" di Renato Serra, il grande critico cesenate che avrebbe sottoscritto una frase come questa: "Non si vuole morire e non si può vivere come si vorrebbe."

L'Homo furens tanto diverso dall' Homo sapiens può manifestarsi nell'incontro della vita con la morte, nella stessa immagine del nemico/amico, nel dolore del mondo e delle sue colpe che sono umane, terribilmente umane, anche quando creano mostri. E la soluzione, e sembra di riascoltare le parole del nostro Scipio Slapater, stanno ancora nell'amore, amare e lavorare, lui diceva ai suoi fratelli triestini: senza amore non c'è futuro, anche durante il conflitto, che è parte dell'umano e del suo dramma quotidiano.