Società | Fake news

"Le nuove tribù"–notizie che non lo sono

Distopie e disinformazione, dai vaccini alle regole contro il giornalismo di Facebook.
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Foto: Everyeye.it

Facebook ha da poco disabilitato la funzione che permette di modificare la foto il titolo e la descrizione di link pubblicati da siti esterni sulla sua piattaforma.

La scelta del colosso di Menlo Park rientra in un piano più grande per arginare il fenomeno delle notizie false, dato che i visitatori del social network tendono a leggere solamente il titolo di una notizia, senza aprirne il contenuto o assicurarsi che non provenga da un giornale satirico.

La notizia ha suscitato un certo imbarazzo da parte di alcune riviste online e siti di e-commerce, che non potranno più ripubblicare articoli o prodotti con un'immagine o un titolo diverso per portare più accessi al proprio sito.

La notizia è stata data da Alex Hardiman, ex responsabile per i media devices del New York Times e poi passato a Facebook, per cui oggi dirige una task force creata per far fronte al problema delle fake news. Il gruppo di lavoro è stato riunito dopo le ultime elezioni americane, il sito di Zuckerberg è stato infatti accusato di aver contribuito alla vittoria dell'ex tycoon Donald Trump per il posto di Commander in Chief degli Stati Uniti.

Persino Caitlin Dewey, giornalista del Washington Post, ha chiuso la sua rubrica appositamente creata per smontare le bufale usate dal Presidente degli USA per fini elettorali, dopo aver notato che la verifica dei fatti non faceva altro che provocare effetti collaterali. Non è stata solo la Dewey che ha riscontrato questo trend ma anche uno studio condotto da un gruppo di ricercatori pubblicato sulla rivista PLOS ONE.

L‘èquipe internazionale ha preso in esame il comportamento di 54 milioni di profili Facebook nell‘arco di cinque anni.

I ricercatori hanno analizzato post, like e commenti pubblicati su 330 pagine Facebook incentrate sulle teorie del complotto, 83 pagine di carattere scientifico e 66 dedicate al debunking, alla falsificazione delle bufale.

Due comunità distinte sui social, due tribù con attitudini diametralmente opposte, sono il frutto dei dati analizzati: il problema è che tali gruppi non comunicano tra di loro, ma socializzano solo con chi condivide il loro pensiero rafforzando così le loro convinzioni senza necessità di approfondire l’argomento.

Quelle che chiamiamo le "Bolle Social".

Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti non sono antidoti al propagarsi di fake news

La prima autrice dello studio è Fabiana Zollo dell‘Università Ca‘ Foscari di Venezia.

“I post di debunking stimolano commenti negativi, non raggiungono il pubblico ‘complottista’ oppure lo fanno reagire nel senso opposto a quello sperato. La diffusione della disinformazione è dovuta alla polarizzazione degli utenti, ma anche alla crescente sfiducia nei confronti delle istituzioni e all’incapacità di capire in modo corretto le informazioni”, afferma.

Come si agisce allora? Quali sono le misure che potremmo adottare?

"Il debunking e l’attacco frontale ai complottisti - prosegue - non sono antidoti al propagarsi di fake news. Piuttosto, l’uso di un approccio più aperto e morbido, che promuova una cultura dell’umiltà con l’obiettivo di abbattere i muri e le barriere tra le tribù della rete, rappresenterebbe un primo passo per contrastare la diffusione della disinformazione e la sua persistenza online. Siamo già lavorando a tecniche per avere ‘segnali d’allerta’ riguardo la diffusione di informazioni false e abbiamo risultati molto promettenti”.

Questi comportamenti sociali – non solo social – sono influenzati anche da altri fattori, come la scarsa capacità del 70% degli adulti italiani di comprendere e riportare un testo semplice o comprenderne solo il focus. Il 18,6% degli italiani si informa esclusivamente attraverso la televisione, che svolge anche il ruolo di intrattenimento generalista, sostitudendo il cinema, i giornali, le riviste online, i libri.

Ma ci sono altri dati, ad esempio uno studio condotto dall'Universita di Warwik, in Gran Bretagna, dimostra come solo il 40% della popolazione sappia riconoscere una foto manipolata e palesemente falsa.

Ma le colpe non sono di certo da imputare a un generico e roboante "Internet", dato che le notizie false esistono da sempre e impugnare fiaccole e forconi contro un mezzo di condivisone non sarebbe di certo utile o esatto, per questo di recente Robert Darnton per i tipi del New York Books Review ha scritto un interessante e puntuale articolo: "The True History of The Fake News".

Lo scenario però si fa interessante se pensiamo ai futuri sviluppi dell‘industria della falsificazione. Riprodurre la voce di un importante personaggio pubblico o creare video di eventi che non sono mai accaduti, non sono più profezie fantascienfiche, come indaga l‘Economist di Londra. Quindi, come faremo un giorno a distinguere una prova vera da una falsa?

Di sicuro non affidando il compito della scelta di quale sia la verità fattuale a multinazionali come Facebook, che ha cominciato a delegare a siti di debunking di terze parti la cura della diffusione delle notizie o alla regolamentazione di Internet da parte dei governi. L‘istituzione di un Ministero della Verità è una cosa che non vorremmo uscisse dalle pagine di 1984 di Orwell.

Viviamo nell'epoca della morte dell'autorevolezza, non della verità, altrimenti dove metteremmo la fake news della Donazione di Costantino, che ha concesso al Vaticano di giustificare il suo potere temporale, oltre a quello spirituale?

Eppure viviamo in un tempo in cui il Presidente degli Stati Uniti non permette alla CNN di avere un accredito stampa, perchè "produce notizie false" e in cui un giovane medico americano in cerca di notorietà, nel 1998, modificando i dati della sua ricerca, inventa un nesso inesistente tra vaccini e autismo.