Alex e Alessandro
«Per tutta la vita Alexander Langer non ha fatto altro che saltare muri, attraversare confini culturali, nazionali, etnici, religiosi»: con queste parole inizia un testo in cui lo scrittore tarantino Alessandro Leogrande, scomparso improvvisamente nel 2017, riassume i tratti salienti del pensiero e dell’azione politica del sudtirolese Alexander Langer (1946-1995) al quale riservò nel 2010 quattro puntate della rubrica “Passioni” su Rai Radio 3 (si possono riascoltare qui). Leogrande maturò un grande interesse per Langer e i suoi scritti albanesi, che voleva fossero tradotti e pubblicati in lingua albanese: “Mi sembra un buon modo per costruire ponti tra le sponde dell'Adriatico” scrisse in una mail a Edi Rabini, presidente della Fondazione Langer. “Langer era diventato ai nostri occhi l'avvocato dell'Albania in Europa. Con Leogrande – che all’Albania aveva dedicato un libro, “Il naufragio” – ha costituito, in fasi differenti, una specie di staffetta, per riconsegnare all'Albania speranza, amore e solidarietà. Saranno sempre indimenticabili” sostiene la scrittrice Diana Çuli. Un libro ricorderà presto questo loro impegno.
Salto.bz: Come è nata l'idea di un volume che raccolga insieme i testi di Langer e Leogrande sull'Albania?
Giovanni Accardo: Lo scorso 6 marzo a Bolzano, con la scrittrice Nadia Terranova, abbiamo ricordato Alessandro Leogrande in un Centro Trevi strapieno di persone attente e commosse. Avevo dedicato parte del mio intervento a parlare del suo legame con l’Albania, del progetto di Alessandro di far tradurre dalla sua editrice albanese Arlinda Dudai gli scritti di Langer sull’Albania e infine la storia del monumento alla Kater i Rades, la motovedetta albanese naufragata nel canale di Otranto nel 1997 e a cui Leogrande aveva dedicato il libro “Il naufragio”. Nel corso di quell’intervento ho conosciuto Gentiana Minga, giornalista e poetessa, e Arta Ngucaj, artista, entrambe albanesi residenti a Bolzano che mi hanno aiutato ad approfondire sia la storia del monumento sia il ricordo lasciato da Alessandro in Albania. Inizialmente avevo pensato di scrivere un saggio da pubblicare in una rivista, poi parlando con Gabriele Di Luca e Aldo Mazza è nata l’idea di un libro che raccolga gli scritti di Langer e Leogrande sull’Albania, con un mio saggio introduttivo e una prefazione di Goffredo Fofi, che sarà pubblicato da Edizioni alpha beta Verlag il prossimo autunno.
Nel dicembre 1990, l'europarlamentare verde Alexander Langer compì una missione diplomatica in Albania su mandato della Commissione Politica del Parlamento Europeo. A quale scopo?
Alexander Langer era stato in Albania per sondare la situazione politica e le possibilità di relazioni tra quel paese e la Comunità Europea. Vi si era trovato tra l’11 e il 17 dicembre 1990, cioè durante le grandi manifestazioni di protesta degli studenti universitari contro il governo di Ramiz Alia, erede di Enver Hoxha. Aveva seguito dal vivo le due grandi assemblee studentesche di Tirana dell'11 e 12 dicembre (con rispettivamente 20.000 e 70-80.000 partecipanti), la formazione del nuovo partito democratico, la ripresa della vita religiosa (una messa a Skutari con 7-8000 persone, altre manifestazioni di fede cattolica, musulmana e ortodossa), le reazioni alle manifestazioni, talvolta violente, in alcune città dell'Albania e le ripercussioni di tutte queste scosse sulle autorità albanesi. Era tornato convinto che l'Europa, e in particolare l'Italia, avesse un debito col popolo albanese che bisognava cominciare a pagare senza indugio.
Il suo diario di viaggio fu pubblicato l'anno successivo.
Langer aveva l’abitudine di scrivere tutte le esperienze che affrontava o in un diario privato, oppure su giornali e riviste per condividerle e conservarne memoria. E anche quei giorni in Albania saranno raccontati in diversi articoli, primo fra tutti L’Albania di fronte all’Europa, pubblicato nel numero di gennaio-febbraio 1991 della rivista “Bianco & Rosso”, poi il lungo Diario d’Albania, pubblicato su “Linea d’ombra” di aprile 1991, in cui vediamo come, facendo saltare più volte il protocollo, accanto agli incontri ufficiali con i rappresentanti istituzionali, cerchi continuamente di incontrare i protagonisti delle manifestazioni, parlando e cenando con loro, persino consigliandoli su come organizzare un partito democratico. D’altra parte, quando, molti anni prima, era salito a Barbiana per incontrare don Lorenzo Milani, il priore l’aveva invitato ad abbandonare l’Università e a mischiarsi alla massa povera e analfabeta.
L’emigrazione albanese verso l’Italia dei primi anni novanta rappresenta un interessante paradigma delle paure e dei pregiudizi verso l’altro. E la vicenda della Kater i Rades di cosa può produrre una politica d'ostilità nei confronti dei migranti.
Cosa gli restò di quell'esperienza?
Ritorna sull’Albania in maggio, con l’articolo Cosa si può fare per gli albanesi?, pubblicato su “Mosaico di pace”, e poi il 25 giugno con un articolo sul quotidiano di Trento “L’Adige”, che molto significativamente s’intitola Sparare su chi scappa dall’Albania. Molti studenti, infatti, per paura di rappresaglie del governo albanese e per cercare un futuro libero, cominciano a scappare verso l’Italia. Langer stabilisce un confronto tra «l'accoglienza che gli albanesi di oggi trovano nel nostro paese rispetto a quella dei loro antenati venuti - fuggiaschi anche loro - nel Rinascimento ed insediatisi sino al giorno d'oggi nel Meridione d'Italia». Sente che l’Italia sta facendo una brutta figura, perciò invita a «rimediare con alcuni piccoli passi concreti e possibili, nella direzione della solidarietà e di un investimento umano e anche politico nel futuro».
Perché per Leogrande era così importante ripubblicare gli “scritti albanesi” di Langer?
Di questi scritti, di Sparare su chi scappa dall’Albania in particolare, si ricorda Alessandro Leogrande quando comincia a lavorare alla sua inchiesta sul naufragio della Kater i Rades; difatti, come epigrafe del libro Il naufragio – dopo la canzone di Bob Dylan, When The Ship Comes In – mette un brano tratto da questo articolo di Langer. Sin da ragazzo Leogrande frequenta l’Albania in compagnia del papà, che era un funzionario della Caritas pugliese, una terra che in qualche modo sente come un prolungamento della Puglia, dall’altra parte dell’Adriatico. E proprio con il volontariato segue la fortissima ondata migratoria, segnata in maniera emblematica dall’arrivo della Vlora, la nave mercantile che il 7 agosto 1991 arrivò a Bari con un carico impressionante di albanesi. Gli scritti di Langer rappresentano, allora, una possibilità di capire ulteriormente le trasformazioni dell’Albania, in particolare quelle che hanno portato alla caduta del regime comuniste e alla fuga massiccia verso l’Italia.
Qual è stato il ruolo dell'Albania nel lavoro di Alessandro Leogrande?
In un articolo pubblicato su “Lo straniero” nel 2013 scrive che «l’Albania ha rappresentato per l’Italia il grande “altro” […] ha fatto irrompere le migrazioni di massa e i viaggi dei migranti nel nostro immaginario contemporaneo». Nel rapporto con l’Albania, a suo parere, s’intrecciano passato remoto, passato prossimo e presente. Quindi l’interesse per questa terra che sorge proprio di fronte alle coste pugliesi è umano, culturale e politico. La fuga verso l’Italia nel 1997 diventa tragedia, con il naufragio della motovedetta Kater i Rades carica di uomini, donne e bambini, affondata a poche miglia da Brindisi, dopo essere stata speronata da una corvetta della Marina Militare italiana e a cui Leogrande dedica una straordinaria inchiesta, attraverso la quale entra in contatto con i familiari delle vittime, recandosi varie volte in Albania. L’affetto che Alessandro ha dimostrato verso il popolo albanese è stato ampiamente riconosciuto dai tanti che lo hanno conosciuto e incontrato, e questo affetto è culminato nell’intitolazione di una strada a Tirana lo scorso 7 settembre.
Esattamente come Langer, Leogrande ha guardato al mondo con gli occhi dei più deboli, delle vittime della storia, in nome dei quali ha preso la parola.
Ci sono punti di contatto tra i loro sguardi?
Sì, le consonanze tra i due sono numerose, a partire dalla precoce attività intellettuale; entrambi, infatti, iniziano a scrivere e a interessarsi dei problemi del mondo già da studenti liceali. Nel 1961, a soli 15 anni, Langer ideò la rivista “Offenes Wort” (Parola Aperta) per dare la parola ai giovani nel Sudtirolo rigidamente separato tra italiani e tedeschi, una parola aperta, appunto, libera, priva di ipocrisie e combattiva. E il giovane Leogrande, ancora studente liceale a Taranto, comincia la sua collaborazione con “La terra vista dalla luna”, un mensile nato nel 1995, diretto da Goffredo Fofi e dedicato al volontariato, all'associazionismo, alla scuola, ai giovani, alla città. A differenza di Langer, Leogrande non è stato un attivista politico, ma la sua è una scrittura politica che nasce dall’attenzione costante alla polis, sia essa la comunità locale (Taranto e la Puglia), nazionale o internazionale. Non militare in un movimento o in un partito politico gli ha dato sicuramente molta libertà intellettuale, ma forse anche solitudine e fragilità.
Entrambi erano interpreti di una scrittura “militante”.
Come ricorda Salvatore Romeo nell’introduzione al volume postumo “Dalle macerie”, pubblicato da Feltrinelli, col passaggio dell’Ilva dalle partecipazioni statali alla famiglia Riva, Leogrande assume sempre più il ruolo dell’intellettuale militante, i suoi interventi si fanno programmatici. Non mancano articoli in cui prende chiaramente posizione contro le colpe della sinistra, di cui denuncia l’assenza dai quartieri poveri di Taranto e l’incapacità di ascoltare quella città popolare che avrebbe dato il proprio voto al populista Giancarlo Cito. E poi, esattamente come Langer, Leogrande ha guardato al mondo con gli occhi dei più deboli, delle vittime della storia, in nome dei quali ha preso la parola. Molti dei temi di cui ha narrato nei suoi libri – l’inquinamento industriale, la xenofobia, lo sfruttamento lavorativo, i diritti umani – erano centrali nell’impegno politico di Langer, in cui probabilmente ha intravisto anche un modello di indagine sociale e di relazione con l’altro. Lo strettissimo rapporto tra il dire e il fare piace moltissimo a Leogrande, che in una delle puntate di “Passioni”, lo giudica la base di ogni pedagogia che abbia un minimo di senso. Anche la scrittura d’inchiesta o il reportage non possono esistere senza l’altro, Leogrande ne è pienamente consapevole.
Come fu il loro legame con le rispettive terre natìe?
Per Langer è stato determinante avere un punto da cui osservare il mondo: il Sudtirolo interetnico da dove era andato via più volte – a Firenze, a Roma, a Bruxelles – ma dove ritornava sempre. Anche vivendo altrove, seguiva e cercava di partecipare a quello che accadeva tra Bolzano e Vipiteno, dov’era nato. I suoi frequenti viaggi erano anche spostamenti del punto di osservazione, luoghi da cui arricchire l’analisi politica, in uno scambio continuo con la sua terra d’origine. Anche Leogrande aveva un suo punto da cui guardare l’Italia e il mondo: Taranto, la città in cui era nato e da cui era andato via per gli studi universitari, ma alla quale ritornava sempre e dove, pur abitando a Roma, aveva mantenuto la residenza. A Taranto aveva assistito al degrado della politica, alla sua trasformazione in spettacolo mediatico e a tratti circense, con le vicissitudini, anche giudiziarie, del sindaco Giancarlo Cito. Dopo il suo sguardo si era allargato alla Puglia e all’Adriatico.
Leogrande parte dall’idea che sia fondamentale conoscere l’altro, capire chi è e da cosa scappa; c’insegna che il confine è un concetto estremamente mobile, non soltanto geografico ma anche (e soprattutto) mentale, con cui dobbiamo confrontarci.
Leogrande aveva un rapporto speciale anche con Bolzano.
Era stato a Bolzano nel dicembre del 2013 – prima al mio liceo, dove aveva raccontato agli insegnanti come si scrive un reportage, e poi, in collaborazione con la Fondazione Langer, avevamo presentato il suo libro su Taranto, “Fumo sulla città”, pubblicato da Fandango. Era tornato altre volte a Bolzano, città con cui aveva un legame forte, in parte dovuto al profondo interesse che nutriva per Alex Langer, e in parte per le ragioni che racconta nel suo libro “La frontiera”. E proprio per presentare quello che rimane il suo ultimo libro in vita, era tornato a Bolzano nel giugno del 2016.
Saltare i muri. Raccontare #LaFrontiera. Ieri a Bolzano con la Fondazione Langer, @gadilu e gli amici della Ubik pic.twitter.com/PGyjl0DpCl
— Alessandro Leogrande (@LeograndeAle) 19 giugno 2016
Oggi il nostro paese tratta il fenomeno migratorio come se fosse un fatto “nuovo”. Eppure l'Italia si è confrontata con esso ben prima degli anni duemila, con l’emigrazione dalle regioni del Mezzogiorno, dai Balcani, dall'est Europa e dal Maghreb. A tal proposito, cosa può insegnarci l'impegno politico (e umano) di Alexander Langer?
L’esperienza della massiccia emigrazione albanese dei primi anni ’90 verso l’Italia rappresenta un interessante paradigma delle paure e dei pregiudizi verso l’altro, ma anche un esempio di come possono andare le cose. È vero che l’arrivo degli albanesi fu segnato da episodi di straordinaria accoglienza, ma è vero anche che poi cominciò a diffondersi una facile criminalizzazione, in parte giustificata da fatti criminosi di cui furono protagonisti alcuni di loro. Oggi, però, gli albanesi sono perfettamente integrati nel tessuto produttivo e sociale, molti di loro hanno la cittadinanza italiana e i loro figli si sentono italiani al 100%, al punto che diversi di loro conoscono poco la lingua e la storia della terra dei loro genitori. Questo ci dimostra che, superata la paura, l’integrazione e la convivenza multietnica non sono utopie. Di ciò era perfettamente consapevole Langer che già da ragazzo capisce che per superare i pregiudizi e poi i conflitti tra italiani e tedeschi bisogna incontrarsi, conoscersi, dialogare. Tenterà di mettere a frutto quello che gli ha insegnato l’esperienza sudtirolese nelle varie missioni da parlamentare europeo nell’Europa dell’Est e durante la drammatica guerra in Bosnia. Langer capisce che l’Europa non può essere solo un’unione economica, ma deve diventare unione culturale e umana, non a caso parla di fratellanza euromediterranea; e compito dell’Unione Europea dovrebbe essere quello di favorire la democrazia dove non è ancora arrivata o dove è arrivata da poco (come l’Albania), tutelando ogni minoranza: linguistica, religiosa, culturale.
Quali insegnamenti possiamo invece trarre dalle opere di Leogrande, sulle orme di Langer?
Nelle sue ricerche e nei suoi reportage, Leogrande parte dall’idea che sia fondamentale conoscere l’altro, capire chi è e da cosa scappa, cosa che farà in maniera straordinaria col suo ultimo libro “La frontiera”. Ma anche in “Uomini e caporali”, il viaggio nel nuovo schiavismo che si nasconde tra i raccoglitori di pomodori – quasi tutti polacchi – che popolano le campagne del foggiano e di cui racconta nel libro. Esattamente come Langer, Leogrande c’insegna che il confine è un concetto con cui dobbiamo confrontarci, un concetto estremamente mobile, non soltanto geografico ma anche (e soprattutto) mentale. La vicenda della Kater i Rades – che ha causato la morte di 57 persone, in maggioranza donne e bambini, mentre altri 23 corpi non sono mai stati trovati, proprio oggi che si invoca la chiusura dei porti e la militarizzazione del Mediterraneo – è davvero paradigmatica di cosa può produrre una politica di ostilità verso i migranti.