Cultura | Linguistica e politica

Il silenzio di Elmar

Stephanie Risse, docente alla facoltà di scienze della formazione di Bressanone, ha scritto un libro importante che rintraccia nei nostri atti linguistici, palesi e mancati, un metodo per comprendere i “crampi” che ancora irrigidiscono il discorso pubblico ufficiale sudtirolese.

Oggi viene presentato alla LUB uno studio che non ha precedenti, almeno per quanto riguarda la nostra provincia (Sieg und Frieden – Zum sprachlichen und politischen Handeln in Südtirol/Sudtirolo/Alto Adige, Iudicium Verlag, München 2013). Si tratta di una ricerca che si propone di fondere analisi linguistica e politologica. Due ambiti senz’altro legati  – si pensi alla riflessione scaturita dalla retorica classica –, ma col tempo diventati sempre più specialistici. Secondo Stephanie Risse il Sudtirolo offre un ottimo campo d’indagine per coglierne nuovamente l’intersezione.

Professoressa Risse, perché il Sudtirolo sarebbe un luogo ideale per applicare gli strumenti della linguistica al sistema politico che lo caratterizza?

Ma perché qui è la lingua stessa il criterio che presiede al posizionamento dei partiti, che determina cioè il gioco delle appartenenze. Mentre altrove valgono (o almeno valevano) riferimenti di tipo ideale o comunque ideologico, in Sudtirolo la politica è finalizzata a formare in primo luogo la materia dei gruppi linguistici, agendo in nome dei loro supposti interessi.

Qual è la peculiarità della nostra situazione rispetto ad altri contesti ugualmente caratterizzati dalla presenza di minoranze linguistiche?

Io mi sono occupata per dieci anni di minoranze tedesche all’interno dell’ex territorio sovietico. Conoscevo dunque il problema delle minoranze in base a quel contesto. Se devo dire la verità, quello che mi ha colpito quando sono arrivata in Sudtirolo è una certa ipertrofia dell’ambito normativo.

Vuol dire le leggi che regolano la nostra convivenza?

Sì. Il politologo Günther Pallaver ha scritto di recente che ormai l’intero corpus normativo posto a presidio del “modello sudtirolese” è arrivato a ventimila pagine. Chi è in grado di leggersele tutte?

Ma non pensa che l’esistenza di tutte queste regole serva anche a prevenire il riaffiorare di contrasti che hanno contraddistinto in passato la nostra terra?

Possibile. Non sto dicendo che queste norme non siano state necessarie, in passato. Esse però hanno in un certo senso anche contribuito a non risolvere il problema, a mantenere il contrasto latente e ciò potrebbe risultare altrettanto rischioso.  

Alcuni ritengono che se il motivo di un blocco del genere è dovuto all’impalcatura giuridica entro la quale ci troviamo ad agire, allora bisognerebbe cambiare la cornice istituzionale, puntare per esempio sull’indipendenza del nostro territorio.

È una soluzione che non mi convince. Sono tendenzialmente contraria al frazionamento dei territori come metodologia per risolvere i loro problemi. E poi non sono sicura che qui esistano i presupposti per uno slancio autenticamente progressista congiunto alla formazione di una più forte identità regionale. Penso per esempio alla funzione unificante che ha avuto la lingua lussemburghese allorché dovette distinguersi dal tedesco “importato” dai nazionalsocialisti. In quel caso si è trattato di un processo che ha potuto rafforzare un’identità positiva, senza peraltro smorzare la capacità di apertura che ancora caratterizza quella società. Invece, nel caso del dialetto sudtirolese…

Non funzionerebbe?

Guardi, io non voglio assolutamente sminuire il valore del dialetto… però mi chiedo anche che senso possa avere contrapporlo ad altre lingue d’impronta nazionale, che comunque ci consentono di far parte di uno spazio culturale più ampio. Effettivamente a me sembra che in Sudtirolo il dialetto venga adoperato in un senso di crescente esclusivismo. E non mi pare uno sviluppo esaltante.

Con questo siamo alla concezione della linguistica pragmatica che sta alla base del suo lavoro.

Esatto. In realtà questa concezione ha alla base un assunto molto semplice: attraverso il linguaggio gli uomini possono compiere azioni. Prendiamo per esempio la frase “Vi dichiaro marito e moglie”. Questa è una frase che io posso analizzare dal punto di vista grammaticale o da altri punti di vista prettamente formali, ma devo anche sapere che si tratta di una frase dalla quale (certo, se pronunciate in un determinato contesto) si originano determinate conseguenze. Nella linguistica abbiamo avuto un forte accento su tali aspetti a partire dai lavori di John Searle e John Austin, noti come “teoria degli atti linguistici”.

E il legame col Sudtirolo quale sarebbe?

Nel libro ho analizzato a lungo i protocolli di una seduta del Consiglio comunale di Bolzano (15 novembre 2001) nella quale si discuteva dell’approvazione del cambio del nome per piazza Vittoria. Un “testo” molto interessante per capire in nuce questa terra e le sue dinamiche discorsive, troppo spesso ancora bloccate da “crampi”.

Come andò quella seduta, vista con la lente della linguistica pragmatica?

Come le dicevo, nella seduta si discuteva del cambio del nome della piazza, quindi il famigerato monumento alla Vittoria gettava la sua ombra sulle spalle dei consiglieri. E qui, dal punto di vista pragmatico, avevamo a che fare con un’offesa permanente, percepita dai “tedeschi”, alla quale gli “italiani” avrebbero dovuto reagire con l’atto linguistico delle scuse, avrebbero dovuto scusarsi.

E accadde?

Sì. Il punto è proprio questo. La coraggiosa proposta dell’allora sindaco Salghetti Drioli corrispondeva esattamente a un atto di scuse. Ma incomprensibilmente queste scuse non vennero accettate. Per tutto il tempo della seduta, la persona che avrebbe potuto compiere con più autorevolezza il gesto di accettarle, cioè il vicesindaco Elmar Pichler Rolle, non parlò. Lasciò invece che a prendere la parola e a porsi come prevalente interlocutore degli italiani fosse il “falco” Ellecosta. Il quale, per l’appunto, trattò la proposta di riconciliazione del sindaco con freddezza, come un semplice “atto dovuto”. Come a dire: niente potrà mutare la nostra posizione di offesi, e quello che farete voi, in fondo, non ci interessa.

Sarebbe cambiato qualcosa se Elmar Pichler Rolle non avesse taciuto?

Impossibile dirlo. È sempre azzardato lavorare con i controfattuali. Ma dal punto di vista della linguistica pragmatica applicata alla società locale posso dire che non è possibile continuare a rimandare all’infinito queste occasioni di riconciliazione. Alla fine la cosa curiosa, e anche un po’ la sorpresa che ho avuto scrivendo il mio libro, è questa: in Sudtirolo lamentiamo sempre una carenza di competenza linguistica formale, pensiamo cioè che i veri problemi siano quelli di come fare per imparare meglio le lingue (il che è vero, ma è anche vero che almeno a livello passivo la nostra è ormai una società largamente plurilingue), in questo modo però sottovalutiamo per l’appunto gli aspetti pragmatici della nostra comunicazione, soprattutto a livello politico o di sistema, e solo con grande difficoltà e ritardo riusciamo a creare un campo di atti linguistici intonati in modo complessivo alla cooperazione interculturale. 

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franca toffol Mar, 04/30/2013 - 15:38

Ho letto l'intervista con grande interesse e ne condivido molti punti: spero che uno studio sull'uso "politico" della lingua mi rianimi dalla tanta retorica sul bilinguismo.

Mar, 04/30/2013 - 15:38 Collegamento permanente