Economia | Italia
Il Paese più povero d'Europa
Foto: upi
"Futuro anteriore" è il titolo del rapporto 2017 che la Caritas dedica al tema della povertà giovanile e dell'esclusione sociale. Raccontano una situazione drammatica in particolare per i giovani tra i 18 e i 34 anni. Nel 2016, il 10,4% di quanti risiedono in Italia ed appartengono a questa fascia d'età, è da considerarsi in una condizione di povertà assoluta. Nel 2007, lo stesso dato era pari all'1,9%.
Queste analisi sono state presentate mentre si appresta a diventare operativo la misura del Reddito di inclusione (come funziona l'abbiamo descritto qui), che garantirà a partire da gennaio un sussidio fino a 485 euro al mese per le famiglie in difficoltà. Il lavoro di Caritas, così, aiuta a comprendere quanto l'intervento pubblico potrà offrire una risposta soltanto parziale al problema: il REI, infatti, toccherà in particolare i nuclei famigliari con figli minori.
Quello che il Rapporto Caritas aiuta a comprendere è anche che, in termini assoluti, l'Italia rappresenti con la Spagna un "caso", al quale Bruxelles dovrebbe guardare con attenzione. Tra il 2010 ed il 2015, il numero di quanti vivono una condizione di rischio di povertà ed esclusione sociale è aumentato nel nostro Paese di 2,578 milioni, arrivando a 17,46 milioni in totale (oltre un quarto della popolazione). Nei 27 Paesi UE, nello stesso periodo, i nuovi poveri in più sono meno di un milione e mezzo. Dobbiamo affrontare un problema, che - tornando ai nostri giovani fino a 34 anni - vede come conseguenza anche lo "spostamento, di generazione in generazione, di tutte le tappe salienti del processo di transizione allo stato adulto verso età sempre più mature", come scrive l'ISTAT nel rapporto "Natalità e fecondità della popolazione residente", presentato il 28 novembre.
I numeri dell'Istituto nazionale di statistica, che quantificano una riduzione del numero di nuovi nati nell'ordine di oltre 100mila unità dall'inizio della crisi, permette di creare un nesso tra i due temi: i giovani poveri non si sposano e non fanno figli; non diventano adulti. Rimandano (dalla riduzione alla propensione ad avere figli negli ultimi dieci anni dipende una riduzione di circa 25mila nuovi nati). "La recente crisi economica si è riflessa sensibilmente nella crisi della formazione delle famiglie e nel calo della natalità. La forte contrazione dei primi figli, passati dai 283.922 del 2008 ai 227.412 del 2016 (-20% i primi figli e -16% i figli di ordine successivo)" spiega l'ISTAT.
I gioani non lavorano ("I dati relativi all’occupazione aggiungono ulteriori elementi sul tema dello svantaggio giovanile; dal 2007 ad oggi il tasso di occupazione, nella classe 15-34, è passato dal 50,8% al 39,9%" spiega il rapporto CARITAS), e spesso nemmeno cercano più lavoro. Vivono una condizione di deprivazione, e sono scoraggiati. Molti lasciano un Paese (oltre la metà dei 114mila italiani emigrati all'estero nel 2016 hanno tra i 20 e i 34 anni) che probabilmente non è più in grado di rispondere alle loro esigenze: come potrò accedere ad un Reddito di inclusione destinato alle famiglie, quando non posso nemmeno immaginare di avere una famiglia? Come posso pensare di avere un figlio, se l'unica prospettiva (di cui si discute anche in questa legge di Stabilità 2018) è un bonus bebè o detrazioni fiscali, e non un massiccio investimento in welfare, a partire dagli asili nido? Come posso pensare di diventare madre, se questo rappresenta un ostacolo di fronte all'esigenza di continuare a lavorare per garantirmi un reddito che mi tenga fuori dalla condizione di povertà (nel 2016, "il 40% delle domande [di dimissioni volontarie da parte delle lavoratrici donne] è stato motivato dalla difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei figli", come spiega questo articolo del Corriere della Sera).
Siamo di fronte, scrive il 29 novembre su la Repubblica la sociologa Chiara Saraceno, a "una sorta di tempesta perfetta: chi è in grado di procreare diminuisce numericamente e per giunta è ostacolato a farlo anche quando lo desidererebbe". Interventi ed investimenti di tipo strutturale non sono più rimandabili.
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