Onore al metodo
Chi ha apprezzato la quieta e disincantata disamina che Maurizio Ferrandi ha dedicato alla querelle sul doppio passaporto non avrà avuto difficoltà a capirlo: ogni tema a sfondo “etnico”, qui in Alto Adige/Südtirol, non è che l'increspatura polemica agitata in una superficie sospesa su fatti pregressi e stratificati. Per comprendere la consistenza (spesso apparente) della polemica bisogna dunque essersi fatti le ossa sulle cronache politiche degli ultimi decenni, e alla luce della storia, anzi di questa storia particolare, ogni turbolenza acquista poi anche la sua giusta prospettiva (e la sua ridotta proporzione). Anche l'incendio più impressionante può essere perciò ridimensionato e visto come la fiamma di un cerino passato di mano in mano, in attesa che qualcuno ci soffi sopra e lo spenga (magari per riaccenderlo tra qualche anno).
Una storia di sforzi complessi e mediazioni difficili
Presentando il secondo volume delle sue cronache parlamentari della questione altoatesina (“Dibattiti e dinamite", Edizioni Alphabeta Verlag 2017), Ferrandi si è più volte divertito a porre una domanda: “Secondo voi qual è il Parlamento europeo che, subito dopo la seconda guerra mondiale, si è occupato maggiormente delle nostre vicende”? Per scoprirlo si sfoglino le pagine iniziali del libro, e avremo la sorpresa di leggere che in quel periodo – dato che Italia ed Austria avevano bisogno di ricostruire dapprima le proprie istituzioni – sono stati soprattutto gli inglesi a dibattere di confini e minoranze in relazione al territorio in cui abitiamo, proponendo già argomentazioni che non appaiono neppure troppo invecchiate: “La democrazia italiana, la piantina tenera che stiamo cercando di rafforzare, dovrebbe, assieme a quella austriaca, guardare più verso una forma di intesa economica piuttosto che rispolverare antiche dispute sui confini...” (la voce qui è di Harold Mcmillan, parlamentare conservatore, in seguito anche Primo Ministro, il quale, tra il 1943 e il 1944, rivestì il ruolo di Alto Commissario in Italia).
Dopo la quietanza liberatoria l'Alto Adige cessa di essere un dossier aperto nelle cancellerie degli stati
“Dibattiti e dinamite” è uno strumento di appassionata (e appassionante) ricerca storico-giornalistica per farci capire il metodo, e non solo il modo, con il quale l'autonomia – della quale disponiamo infatti non per diritto divino, ma in seguito a sforzi complessi e a mediazioni difficili – è stata evocata, concessa, contestata, minacciata e alla fine allargata per dotare la popolazione locale di un quadro (verrebbe da dire “Frame”) di riferimento più affidabile di quello mosso dalle passioni, spesso anche violente, che contemporaneamente ne scuotevano le fondamenta. La determinazione delle date (1945-1992) non è casuale. “Dopo la quietanza liberatoria – ha ricordato l'autore – l'Alto Adige cessa di essere un dossier aperto nelle cancellerie degli stati e i successivi sviluppi non vengono più elaborati nelle aule parlamentari, bensì nelle sedi più disparate in cui la politica, non necessariamente quella più alta, si mescola con interessi occasionali e di varia convenienza”.
I giacimenti digitali e i protagonisti
Anche per comporre questo secondo volume Ferrandi ha potuto soddisfare la sua curiosità di archivista grazie ai giacimenti digitali che i Parlamenti hanno ormai reso accessibili a tutti (“basta avere pazienza e usare le parole chiave giuste, si trova tutto”). L'impresa però non gli sarebbe riuscita se il suo occhio non avesse avuto la capacità di percorrere l'ingente materiale scremando l'essenziale dalle ridondanze, se non avesse avuto, insomma, la capacità di puntare a una sintesi in grado di farci percepire i punti di maggiore densità (le cosiddette “svolte”) e la sensibilità di far emergere il carattere dei personaggi di spicco attraverso citazioni mirate. Tra i sudtirolesi, meritano senza dubbio una menzione l'avvocato August Pichler, nominato il 22 settembre del 1945 membro della Consulta Nazionale, Hans Dietl, Peter Brugger, Roland Riz; e poi ovviamente gli “italiani”, sia quelli decisivi in senso positivo, come Alcide Degasperi, Giulio Andreotti o Aldo Moro, ma anche in senso negativo, come Giorgio Almirante, del quale nel libro si ricorda ovviamente il “discorso fluviale” tenuto all'inizio di dicembre del 1969, in allarmata risposta all'annuncio, dato dall'allora presidente del Consiglio Mariano Rumor, dell'avvenuto accordo sul “Pacchetto”.
Un metodo per soffiare sui cerini accesi
“Dibattiti e dinamite” si chiude come un sipario su un mondo recente, ma che già pare remoto. Il 30 gennaio 1992, mentre gli scandali di “Mani pulite” stavano per spazzare via un intero ceto politico, il presidente del Consiglio Andreotti tenne alla Camera il discorso con il quale, in pratica, venne sigillata la decennale vertenza: “Signor presidente, onorevoli deputati, tenendo fede agli impegni programmatici, il governo ha proseguito anche nell'adozione dei provvedimenti di attuazione dello statuto del Trentino Alto Adige...”. Cosa sarebbe accaduto, accenna Ferrandi, se la parola “fine” non fosse allora stata scritta, se a decidere fossero stati poi chiamati, nell'era di Silvio Berlusconi, “anche gli eredi diretti di quel Movimento Sociale che sino all'ultimo respiro si era battuto in Parlamento contro ogni ipotesi di accordo, contro ogni ipotesi di soluzione, contro ogni modello di autonomia”? Per fortuna la domanda può restare retorica. Il modello Alto Adige – è profonda convinzione di chi adopera saggezza e misura – consiste nel metodo, nel confronto paziente che non si è allentato neppure quando qualcuno voleva farlo letteralmente saltare in aria. È bene non scordarlo mai, all'occorrenza soffiando sui cerini accesi che ogni tanto ci facciamo ancora passare sotto al naso.