Cambiare tutto perché non cambi nulla?
Nel XVII secolo Thomas Willis, medico britannico, riferendosi agli infermi di mente, affermava che “sono necessari disciplina, minacce, catene e percosse... Nulla è veramente più necessario e più efficace per la guarigione di queste persone che costringerle al rispetto e ad aver timore dell’intimidazione”. Una descrizione che non sembra essere così dissimile da quanto è accaduto fino ad oggi negli OPG (Ospedali psichiatrici giudiziari).
Oggi, 31 marzo, dopo l’ennesimo rinvio, le 6 strutture presenti sul territorio nazionale chiudono ufficialmente i battenti. Alcuni internati verranno affidati ai servizi psichiatrici territoriali, altri verranno inseriti gradualmente nelle Rems (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza). Sarà interessante capire, a questo punto, quali misure adotterà l’Alto Adige in tal senso, dal momento che finora le persone affette da un certo tipo di disturbo mentale venivano dislocate nell’OPG più vicino, quello di Castiglione delle Stiviere.
“Il viaggio di Marco Cavallo”, il docu-film di Giuseppe Tedeschi ed Erika Rossi figlio della campagna dell’iniziativa stopOPG, sarà proiettato domani a Roma, in Senato, alla presenza di Giorgio Napolitano e Pietro Grasso. È significativo che Marco Cavallo, già simbolo negli anni ’70 di quella lotta che avrebbe portato alla legge 180 e alla chiusura dei manicomi, sia stato invitato a Palazzo Madama alla fine di un lungo percorso di lotta che lo ha visto di nuovo in prima fila dalla parte dei più deboli per giungere alla chiusura degli OPG.
La pellicola, prodotta dalle Edizioni alphabeta Verlag di Merano per la Collana 180 - Archivio critico della salute mentale, verrà inoltre trasmessa domenica 5 aprile alle ore 22.30 sul 103, canale della Rai regionale (è prevista anche un’altra replica in data da definirsi), per poi approdare, sempre in aprile, ai prossimi Bozner Filmtage. Abbiamo raggiunto al telefono Aldo Mazza, direttore delle Edizioni alphabeta (altoatesino d’adozione) e membro attivo di stopOPG, a un passo da quello che si preannuncia essere, almeno sulla carta, un importante momento storico.
Mazza, in principio erano i manicomi criminali, poi gli ospedali psichiatrici giudiziari, ed ora le Rems. Una psichiatra durante un convegno nell'ex OPG di Napoli ha dichiarato che le mura sono cambiate ma la sostanza è rimasta la stessa. Cosa ci dobbiamo aspettare per il futuro? Le Rems sono un compromesso accettabile?
Quello che è stato denunciato dalla Commissione Marino e da Napolitano e cioè che gli OPG sono luoghi indegni di un paese civile è la realtà, queste strutture non sono rieducative né riabilitative, i pazienti vivono in un degrado totale e in tali condizioni la loro salute mentale non può che peggiorare. Ora tutto dipenderà da come verrà affrontato il post-OPG, perché chiuderli non vuol dire risolvere il problema, ma fare un primo passo, gli interrogativi, d’altronde, sono ancora molti. C’è il rischio concreto, poi, che si ripresentino gli stessi problemi, riguardo la gestione dei malati, che si sono verificati una volta chiusi i manicomi. Una delle soluzioni applicabili dovrebbero essere le Rems, ma è il meccanismo stesso che porta a rinchiudere un individuo che deve essere messo in discussione. Il Codice Rocco del resto prevede, sulla base della presunta pericolosità sociale, la chiusura di queste persone all’interno di strutture con lo scopo di allontanarle dal contesto sociale. Il nostro obiettivo è che meno persone possibili vengano affidate alle Rems e che si punti piuttosto ai servizi psichiatrici territoriali.
Servizi che funzionano?
È qui che la questione si complica. In alcune regioni funzionano e si può contare su percorsi di cura e di reinserimento sociale, in altre funzionano male. Dobbiamo tenere alta la guardia perché dopo la chiusura degli OPG alcune persone verranno dimesse, altre, per via di quella pericolosità sociale di cui si parlava, hanno un destino ad oggi, e finché non cambia il quadro normativo, ancora incerto.
Ha parlato di “pericolosità sociale”, per quello che riguarda gli OPG l’intero sistema detentivo si basa sull'assunto di base che il soggetto considerato “malato mentale” sia “socialmente pericoloso”. Ci spieghi secondo lei il significato di questa definizione e i suoi limiti, se ce ne sono.
Il concetto di pericolosità sociale giustifica la chiusura di una persona ritenuta un pericolo per sé e per gli altri in una struttura che è sostanzialmente penitenziaria. Attualmente se un magistrato, sulla base di una perizia psichiatrica, dichiara una persona socialmente pericolosa la chiude negli OPG a tempo indeterminato. Questo è il meccanismo che vorremmo rompere, un primo risultato ottenuto è proprio quello che prevede un limite di tempo a questo internamento. Occorre fare di più però, non togliere la responsabilità a chi ha commesso un reato, arrivare ad una condanna e comminare una pena che preveda anche una cura, come si cura, ad esempio, pur mandandolo eventualmente anche in carcere, un cardiopatico che potenzialmente ha commesso un reato.
E se allora le strutture psichiatriche, detentive e non, spesso svolgono la funzione di “correzione” piuttosto che di cura, non sarebbe utile valutare progetti di sensibilizzazione, di prevenzione e servizi più adeguati per trattare queste criticità?
Certamente, se prima il soggetto veniva in qualche modo quasi cancellato perché confinato in questi luoghi, ora deve necessariamente rientrare in un circuito, e ogni percorso deve essere individuale. È fondamentale restituire la soggettività alle persone e per far questo occorre la collaborazione di servizi psichiatrici territoriali.
Ci sono già però le prime polemiche sulla chiusura degli OPG perché si teme che con la nuova legge molti internati pericolosi possano uscire…
Non si possono tenere tutti rinchiusi perché c’è il rischio che uno commetta un reato. Quando Basaglia chiuse i manicomi accadde un episodio per il quale venne duramente attaccato, fece uscire un internato e quello poco dopo uccise la moglie. Restò memorabile ciò che Basaglia disse dopo: “non possiamo mica mettere in galera tutti i mariti gelosi”.
In una società che ragiona ancora troppo per compartimenti stagni come sul binomio sano-malato e che emargina il concetto di ”anormalità”, crede che una rivoluzione culturale possa essere un ulteriore fattore terapeutico a questo punto?
La malattia mentale è un cosa che ci riguarda tutti, ognuno di noi è un soggetto potenzialmente a rischio, occorrerebbe quindi rapportarsi a questa realtà sforzandosi di cambiare prospettiva, accettandone la complessità, e in questo gioca un forte ruolo l’atteggiamento della società e anche un approccio diverso da parte di una certa psichiatria che troppo spesso corre il rischio di vedere la malattia e non il malato.
Come disse Basaglia “visto da
Come disse Basaglia “visto da vicino, nessuno è normale”.
E allora, sforziamoci a guardare meglio, per vedere la stra-ordinarietà.