Perché un video diventa virale
Qualsiasi “trends manager” è in grado, senza alzare gli occhi dalla tastiera, di svelare in tre semplici mosse il segreto per rendere un video virale e vivere felici. Il piccolo vademecum consiste solitamente nell’effetto sorpresa (più il contenuto è inaspettato più ha chance di venire cliccato); nella circolazione del video sui social network tramite gli utenti con più amici, followers, seguaci e chi più ne ha più ne metta; farne una parodia, personalizzare il prodotto, un sistema sicuro per ricondurre gli internauti al post originale.
Un interessante articolo apparso recentemente sul New York Times analizzava le ragioni di questa cosiddetta “turbo-diffusione” riportando un curioso aneddoto. C’era questa gallina dalle uova d’oro: un video di un gattino intrappolato in un incendio domestico che veniva salvato da un pompiere. Neetzan Zimmerman, allora redattore del sito di gossip “Gawker”, ne intuì subito le potenzialità virali. Se non fosse che il direttore gli chiese di inserire nel pezzo anche l’epilogo omesso dalla maggior parte delle altre testate: il gattino moriva poco dopo il salvataggio a causa delle inalazioni di fumo. Come andò a finire? “Il video fece la fortuna praticamente di chiunque lo postò – commentò Zimmerman – tranne che del Gawker”. L’articolo del giornale statunitense poneva quindi una sostanziale e legittima domanda: perché un singolo dettaglio, per quanto triste, decide la differenza fra una hit e un flop? Cosa rende virale un contenuto? Ricerche sulle motivazioni psicologiche spiegano che il modo più semplice per catalizzare l’attenzione è, prevedibilmente, trafficare in emozioni. Più sono intense – positive o negative che siano – più la storia ha possibilità di infilarsi nei monitor fagocitanti degli users.
In uno studio condotto da Rosanna Guadagno, psicologa sociale all’università di Dallas in Texas, 256 partecipanti preferivano guardare una clip divertente piuttosto che quella di un uomo nell’atto di curarsi un morso di ragno, ma erano comunque portati a condividere qualsiasi video che evocasse loro un’intensa risposta emotiva. Alcuni analisti di Facebook, dell’Università di Yale nel Connecticut e di quella della California a San Diego hanno esaminato oltre un miliardo di post su Facebook e hanno scoperto che quando gli utenti si lamentano di un giorno di pioggia, i loro amici in altre città scrivono status più cupi con più frequenza rispetto al normale. E gli aggiornamenti di stato positivi sono perfino più contagiosi.
La condivisione, tuttavia, può essere guidata anche dall’ego; secondo una scoperta di Chartbeat, una compagnia che misura il traffico online, spesso gli utenti postano su Twitter articoli che non hanno nemmeno letto. “Le persone costruiscono le proprie identità virtuali mediante il tasto ‘condividi’ – spiega Zimmerman – vogliono che la gente li inquadri in un determinato modo”. Ne aveva già un’idea precisa il poeta inglese Wystan Hugh Auden: “L’immagine di me che cerco di creare nella mia mente per potermi amare è molto diversa da quella che cerco di creare nella mente degli altri perché possano amarmi”.
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