“Mio figlio non è morto invano”
La sera del 24 novembre del 2013 Emanuele Ghidini, sedicenne studente di agraria di Gavardo (nel Bresciano), esce a cena con degli amici più grandi e accetta di provare un “francobollo” allucinogeno che gli viene offerto da uno di questi amici. Ma, come a volte succede, quell’acido gli “sale” male e alle 2 di notte si getta nel fiume Chiese, nel punto in cui una decina di anni prima insieme al padre aveva liberato un pesciolino rosso. A pochi giorni dalla morte del figlio papà Gianpietro crea una fondazione che si impegna a tenere i ragazzi lontani dalla droga e gira l’Italia per raccontare la sua storia. Il ragazzo che girò la droga a Emanuele è stato condannato a 2 anni e 1 mese, “ma non provo rancore per lui - dice Gianpietro - vorrei solo aiutarlo a non entrare in quel mondo”. Ieri (2 maggio) quasi 200 persone, studenti dell’Istituto Rainerum e alcune classi delle Marcelline, hanno ascoltato Gianpietro in religioso silenzio, oggi è stato il turno degli allievi del Galileo Galilei e alle 20.30 è previsto un incontro con la cittadinanza al Rainerum.
salto.bz: Ghidini, Emanuele è morto nel novembre del 2013, come ha vissuto questi 3 anni e mezzo?
Gianpietro Ghidini: È sorprendente che io sia ancora in piedi. Già questo è un ottimo risultato. La perdita di un figlio è il dolore più grande per un genitore, un dolore che annienta. A quel punto le alternative sono due, o muori anche tu, psicologicamente e fisicamente, oppure provi a rialzarti e a trovare motivazioni vere. Ho scritto ad Emanuele una lunga lettera, che è contenuta nel libro “Lasciami volare”, in cui gli dicevo: “Non sei morto invano, hai salvato me e salverai molti giovani”. Ho compreso infatti che mi stavo perdendo, che stavo trascinando la mia vita verso una direzione sbagliata, che non era la mia. Ci dimentichiamo che la vita non può basarsi sui nostri egoismi o unicamente sui piaceri personali. Mio figlio mi ha fatto tornare il ragazzo che ero, quello che sognava di cambiare il mondo, mi ha fatto riscoprire valori che avevo perduto. Da allora ho capito che non dovevo fermarmi, dovevo provare a portare ovunque l’idea che la vita può essere meravigliosa al di là delle sofferenze del singolo. Mi capita spesso di nominare una frase di Gandhi che recita così: “L’uomo è uno scolaro e il dolore è il suo maestro”.
“I sensi di colpa sono grandi come case”, ha dichiarato una volta, è ancora così?
Non possiamo restare attaccati al passato, dei sensi di colpa ormai non mi curo più, guardo avanti.
Ha fatto e sta facendo molti chilometri, a nome della Fondazione che ha creato, “Ema pesciolino rosso”, per raccontare la storia di suo figlio, come viene accolto dai giovani che vengono ad ascoltarla? E cosa le chiedono?
Ho fatto 280mila km fino ad oggi solo in macchina, esclusi quelli in aereo e ho partecipato a 842 gli incontri. La cosa più potente che sento è il silenzio dei ragazzi, e questo significa che mi ascoltano dalla prima all’ultima parola, una responsabilità che sento addosso e alla quale non rinuncio.
E ai genitori cosa dice?
Noto che nella mia storia i genitori ritrovano in qualche modo la loro. Non voglio insegnare niente a nessuno, mi auguro solo che le mie parole possono aiutare a comprendere gli errori commessi. Mi fanno paura quelli che hanno risposte già pronte, secondo me quello non è un modo per avere garanzie che non accada nulla di negativo. Ci sono delle modalità che portano ad avere potenzialmente un’influenza negativa sui propri figli e che aumentano la probabilità di fare dei danni, parlo di due estremi opposti e cioè di quando un genitore è completamente assente, ad esempio, o quando è eccessivamente protettivo. Vede, mediamente siamo tutti bravi genitori, il problema sono le pressioni che spesso si fanno sui figli e che condizionano il loro essere, questo inculcargli la paura di poterci deludere, il giudicarli. Frasi come “da te non me l’aspettavo” contribuiscono ad aumentare questo disagio e non fanno altro che creare una cortina di silenzio fra genitori e figli.
Soluzioni?
Far capire loro che qualsiasi errore commetteranno noi ci saremo al loro fianco, e che non siamo il nemico.
La sua presenza a Bolzano è evidentemente ancora più significativa dopo la recente scomparsa di uno studente 17enne morto per un’overdose nel sottoscala di un garage di via Brennero. Da più parti si chiedono pene più severe per gli spacciatori e intanto quest’epoca di crisi segna il ritorno di droghe come l’eroina, che diventano più accessibili e più facili da procurare per i giovani.
Penso che la droga non sia il primo problema ma la conseguenza di un problema. Un conto è quando i ragazzi vogliono sperimentare lo spinello, anche se io consiglio sempre loro di evitare anche quelli, dico loro di non riempire il vuoto che hanno dentro, questo senso di inadeguatezza e di frustrazione che non riescono a esprimere, con le droghe. Spesso questi ragazzi devono trovare una scusa al proprio dolore e fanno delle stupidaggini, magari solo per sentirsi accettati dal gruppo. Ai giovani voglio anche dire di non perdere la voglia di vivere, di guardare avanti, sono le esperienze più difficili che ci fanno diventare uomini. Ma non bisogna mollare.
Lei ha organizzato anche un giro d’Italia in bici, coinvolgendo alcuni ragazzi, per continuare a diffondere la sua testimonianza.
Sì, nel 2014 siamo partiti da Brescia e siamo arrivati in Calabria, macinando 70-80 km al giorno. Con me c’erano 4 adolescenti di 16-17 anni che avevano qualche problemino di droga. In ogni città in cui ci fermavamo portavamo la nostra storia sempre con l’idea di sensibilizzare i più giovani sui pericoli legati all’uso di sostanze stupefacenti. È un impegno che continuerò a portare avanti, per Emanuele e per me.