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La traduzione come etica

Tradurre può aiutarci a comprendere la nostra esistenza e un’idea più praticabile di politica? La magistrale lezione del professor Luca Illetterati al Circolo Trevi.

Per rendere conto della bellissima lezione tenuta dal professor Luca Illetterati sul tema della “traduzione come stile di vita”, partiamo da un proverbio (“a sfondo sessista”) da lui citato all’inizio: “Ogni traduzione può essere vista come una donna bella e infedele o come una donna brutta e fedele”. Si tratta di un topos nato in Francia nel XVII Secolo e attribuito al filologo Gilles Ménage, il quale nel 1654, per definire la buona traduzione (ma distante dall’originale) del poeta greco Luciano fatta da Nicolas Perrot d’Ablancourt, la paragonò a una donna di cui era innamorato a Tours. Donna bellissima, per l’appunto, e infedele. Per converso, tanto più una traduzione sarà vicina, e dunque fedele alla matrice linguistica dalla quale è tratta, tanto più risulterà “brutta” o “sgraziata”.

Il campo deve essere però subito sgombrato da un possibile equivoco. La trattazione che Illetterati ha dedicato alla traduzione non riguardava i pur rilevanti aspetti quotidiani o della resa letteraria dell’attività del tradurre. La polarizzazione dei concetti di “fedeltà” o “infedeltà” è servita piuttosto per scandire una fenomenologia storica (il filosofo, del resto, è un esperto di Hegel) degli approcci ermeneutici con i quali è possibile pensare la traduzione in relazione a due aspetti intimamente connessi: il modo di leggere le sacre scritture e l’etica che ne può risultare per fecondare la prassi politica.

Allo scopo di chiarire il rilevante passaggio concettuale, come vedremo carico di risvolti attualissimi, Illetterati ha ricordato la leggenda della Septuaginta, vale a dire la versione in greco della Bibbia narrata dalla lettera di Aristea, secondo la quale dall’opera individuale di 72 saggi alessandrini sarebbe miracolosamente scaturito un testo identico, unitario, e quindi “più vero del vero” (notoriamente, la Bibbia ebraica era invece un tessuto polimorfo, redatto da autori apportatori di stili diversi). Non è difficile trarre dalla leggenda un insegnamento prospettico. La questione della traduzione – cioè la traduzione come problema degno di essere pensato anche con gli strumenti della filosofia – nasce propriamente da qui, quando cioè si pone il problema della perfezione di un rispecchiamento tra il messaggio divino e la sua espressione scritta. In altre parole: com’è possibile riversare e quindi tradurre il contenuto eterno e infinito della rivelazione in un testo contingente e perciò finito?

Il Cristianesimo, questo l’assunto dal quale Illetterati è mosso per avvicinarsi al centro della sua esposizione, oltrepassa l’ossessione per la resa perfetta e, anzi, mediante il massimo abbassamento e svuotamento possibile (κένωσις, l’incarnazione) del “divino” eleva l’imperfezione della traduzione a paradigma del proprio “scandalo”. Il Cristianesimo – ha sottolineato Illetterati – assume il profilo di una vera e propria religione della traduzione ( “la traduzione è un problema cristiano”) perché accetta lo scandaloso tradimento generato dall’abbandono dell’origine e dalla discesa del divino nel mondo, e dunque il confronto con la storia delle sue possibili interpretazioni in sempre nuovi contesti. Apparente debolezza e coscienza della propria finitezza che, parimenti, si tramutano (si potrebbe anche dire si traducono) anche in una straordinaria forza di adattamento e capacità di diffusione.

Chiarita a ritroso la genesi cristologica della questione della traduzione, Illetterati ha quindi indicato in che modo il tradurre può essere inteso non come una modalità esperienziale confinata nel suo ambito specifico, quanto piuttosto come la chiave per declinare lo stesso abitare dell’uomo su questa terra e, con ciò, la sua più autentica vocazione etica (parafrasando il poeta Friedrich Hölderlin, il “dichten” del verso “dichterisch wohnet der Mensch auf dieser Erde” potrebbe essere letto anche come un “poetare traducendo”). Traducendo, infatti, facciamo costante esperienza di un limite (il residuo sfuggente, l’alterità mai consumabile del testo di partenza, quel che comunque va perso) che rivela al contempo la limitatezza della nostra vita: “Vivere traduttivamente significa riconoscere che l’altro è sempre altro, cioè differente, ma questa alterità, questa differenza, è sempre un prodotto di una relazione e non può essere pensata al di fuori di essa”. Relazione, dunque, utile sia per decostruire il feticcio di un’alterità irrelata, ma anche smontare la pretesa di assimilare completamente l’alterità in un codice stabilizzato.

In questo modo la pratica del tradurre getta luce sullo spazio conflittuale o polemico della politica: “La traduzione è un campo di battaglia nel quale si manifesta la lotta tra identità che, confliggendo, danno sempre vita a qualcosa di altro, qualcosa di nuovo, costruendo tale alterità e novità sul crinale di mondi linguistici e culturali intrecciati, senza tuttavia mai potersi compiutamente risolvere e assimilare l’uno nell’altro”. Solo grazie alla follia poeticamente incerta della traduzione (Blanchot) possiamo sperare di diluire la follia distruttrice delle ideologie che negano la traducibilità e la messa in relazione del “senso” in nome di una forsennata idolatria dell’origine e della tirannia dei testi originari.   

 

   

 

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Gianluca Trotta Sab, 12/05/2015 - 09:21

Bellissimo resoconto, grazie. Unica cosa (scusa la pedanteria): le traduzioni "belle e infedeli" erano dal poeta GRECO Luciano (di Samosata), forse non c'entra il poeta latino Lucano (l'autore della Pharsalia).

Sab, 12/05/2015 - 09:21 Collegamento permanente