Una gelida statua di ferro
La settimana scorsa ho parlato della guerra tra Russia e Ucraina (o meglio: della guerra che la Russia ha dichiarato all'Ucraina) spostando il punto di vista, sempre negletto, sulle vittime civili del conflitto. Un punto di vista negletto, dicevo, perché la narrazione prevalente in genere non ne tiene conto (esiste addirittura l'oscena definizione di “danni collaterali”), preferendo soffermarsi sull'indagine delle cause e soprattutto gli interessi di chi la guerra la fa, molto meno sulle sofferenze di chi la subisce. Se riuscissimo a spostare invece l'attenzione su chi la subisce, sulla popolazione inerme, ho cercato di argomentare, potremmo forse alimentare una narrazione diversa, costruendo sulla guerra quel tabù che ancora, putroppo, non è.
In Russia l'esercito è un campo di concentramento (A. Politkovskaja)
Ma parlando di una guerra non è possibile non tirare in ballo anche i suoi protagonisti “attivi”, vale a dire i soldati e chi si rende protagonista della loro mobilitazione. A questo proposito esiste un libro – scritto da Anna Politkvoskaja – che appare oggi come imprescindibile per capire cosa sta avvenendo. Il capitolo iniziale (intitolato “L'esercito del mio paese. E le sue madri”) è per esempio un ritratto sferzante sia del modo di governare di Vladimir Putin che, in particolare, delle condizioni in cui sono costretti ad operare i soldati russi. Il focus è ristretto al periodo tra il 2000 e il 2004, ma nulla lascia supporre che la situazione sia nel frattempo migliorata. Cosa scrive, insomma, Politkvoskaja in queste pagine? Eccone un brano illuminante: «In Russia l'esercito – uno dei pilastri istituzionali dello Stato – continua a essere un campo di concentramento per i giovani che finiscono dietro il suo filo spinato. Un campo con relative norme di convivenza paracarcerarie imposte dagli ufficiali. Un luogo in cui il primo metodo educativo è quello di “stanarli e ammazzarli fin nel cesso” (il primo slogan che il neoeletto Putin ha usato per scandire la sua lotta contro i nemici all'interno della Russia)». E ancora, con un tratto che non lascia spazio a possibili equivoci, ecco come viene ritratto il carattere di chi sta attualmente mettendo in serissimo pericolo la pace non solo in quella zona: se sia un essere umano Putin «non lo dà certo a vedere», assomigliando piuttosto a «una gelida statua di ferro».
Disumanità che genera altra disumanità
Che cosa abbiamo dunque? Da una parte gli “inermi”, quelli per esempio descritti dai meritori reportage che Francesca Mannocchi – su “La Stampa” – sta pubblicando come inviata (vi si leggono storie come quella di Dimitri Chamlai, un uomo in fuga, che «non ha dato ai figli nemmeno il tempo di vestirsi, li ha stretti in macchina ancora con il pigiama. Ha scritto la parola bambini sugli sportelli laterali e sui vetri e ha attaccato un drappo bianco al lato della guida»), dall'altra i soldati vessati da un sistema disumano, che li spinge ad essere a loro volta disumani, e spesso schiavizzati e brutalizzati come racconta Politkvoskaja citando una lettera di Pavel Levurda, un soldato morto sul fronte ceceno e del quale rimase solo un teschio, recuperato con faticosissimo dolore dalla madre che se lo andò letteralmente a raccogliere lottando contro una burocrazia militare tanto spietata quanto inefficiente: «Dormiamo tutti insieme, in tenda, per terra. In un mare di pulci. Mangiamo merda. Non c'è altro. Non so cosa ci aspetta. Se ci sposteremo per attaccare chissà che cosa, o se resteremo dove siamo adesso fino a impazzire tutti quanti. O se invece ci metteranno in un aereo per Mosca...». Sopra queste parti apparentemente opposte, infine, le “gelide statue di ferro” delle gerarchie, dei dittatori, di chi la guerra la ordina e solo alla fine ne paga (ammesso poi che qualcuno gliele faccia pagare) tutte le conseguenze.
Anche se a qualcuno non piacerà molto, anche se ogni sovrapposizione tra “vittime” e “carnefici” tende sempre a poter essere percepita come tendenziosa o imbelle, io sento che la storia di Dimitri Chamlai assomigli parecchio a quella di Pavel Levurda, sento un “affratellamento” dei loro destini, e mi sembra che non si possa davvero parlare di una guerra se non cercando di testimoniare quello che di sofferente e insensato e repellente accomuna chi si trova a patirne gli effetti della sua demente, odiosa macchinazione.