Società | Aus dem Blog von Fabio Raffaelli

Auschwitz

Riflessioni dopo l'uscita al campo di sterminio di Auschwitz.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Prima di partire ho parlato con altra gente che era già stata ad Auschwitz o a Dachau o a Mauthausen e quasi tutti mi avevano detto che gl’avevano fatto impressione, che c’erano rimasti male, che in qualche modo erano scioccati nel ritrovarsi davanti ad una tragedia di tale portata. Io so di essere uno che non s’impressiona facilmente per questo genere di cose, eppure immaginavo/speravo di provare un qualche tipo di forte emozione.

E invece nulla. Ho sentito il vuoto dentro di me. Non so come dire, ma pensavo che avrei provato qualcosa a vedere da vicino il luogo che è stato protagonista di atti così crudeli e terribili.

Ho visto montagne di scarpe ed occhiali. In una sala erano ammucchiate due tonnellate di capelli. Ho camminato in una camera a gas e ho visto dove i prigionieri venivano impiccati o fucilati. Sono entrato in una baracca di legno piena di spifferi e ho visto letti di legno a tre piani sui quali dormivano anche 14 persone contemporaneamente, senza materassi, praticamente senza coperte, sdraiati solamente sulle assi di legno. Ho poggiato i piedi sulle stesse pietre dove anni addietro centinaia di migliaia di prigionieri compivano i loro ultimi passi. Mi sono immaginato queste persone con vestiti leggeri, che lavoravano tutto il giorno a -20°, mangiando solo un pezzo di pane e una minestra fatta di verdure marce, rifiuti raccolti in giro per il campo e resti di cibo trovati nelle valige dei deportati. Ho provato a vedere una persona rinchiusa nel buio più totale di una cella 90x90cm, costretta a dormire in piedi, e all’alba uscire per andare a lavorare. Ho visto, ho ascoltato e ho tentato d’immaginare, ma nulla.

Ciò mi spaventa davvero. E non poco.

Alla fine dell’intera visita di Auschwitz I e Auschwitz II (Birkenau) Laura, una signora appartenente alla comunità ebraica di Merano, ha fatto un breve discorso. Ha letto i nomi degli ebrei provenienti da Merano e Bolzano che sono stati uccisi durante la Shoah. Ha recitato una poesia, intonato un canto yiddish e con brevi frasi ha ringraziato i ragazzi partecipanti. A questo punto molti di noi hanno iniziato a piangere. Niente di drammatico o di esagerato: semplicemente occhi rossi e qualche lacrima. Sincera commozione senza alcun tipo di forzatura.

Eppure ancora nulla. E cosa potrebbe significare questo senso di vuoto?

Insomma, mi trovo davanti a tutto questo schifo, sono nel luogo che rappresenta la parte peggiore dell’uomo, circondato da gente che dentro sé sente una forte emozione che gli fa stringere lo stomaco ed io mi sento distaccato da questo torrente in piena di emozioni che scorre vicino a due passi da me. Non essere coinvolto in questa esplosione di sentimenti mi preoccupa.

Il senso di apatia davanti alla prova di un’atrocità così grande mi fa chiedere se anche io possa essere uno dei tanti che è stato a guardare senza fare nulla: sarei davvero in grado di assistere alla morte sistematica e pianificata di 1'000 persone al giorno e non sentire il cuore che mi si stringe nel petto?

Penso sempre di no, eppure giorni come questi insinuano il Dubbio nella mia mente, quasi fosse un demone malvagio che mi vuole imbrogliare.

Mettere questi pensieri nero su bianco li rende ancora più spaventosi, perché prendo coscienza di ciò che queste parole significano.

L’unica cosa che posso dire in questo momento è che io sono vivo, sano e posso pensare liberamente. Ritrovarmi davanti a tali disgrazie mi fa prendere coscienza della mia fortunata posizione rispetto ai milioni di deportati durante la seconda guerra mondiale nei vari campi di sterminio in tutta Europa. Citando Jonathan Carroll: “Ringrazio di essere vivo, giovane e sano. Non ho altro modo per dimostrarlo che fare un mucchio di cose e farle tutte al meglio.”