Prodigy reverse
Un giorno me ne stavo davanti alla tv e devo essere incappato in qualche modo nel videoclip di Breathe, in quello che immagino sia stato il mio primo contatto con i Prodigy in anni in cui se qualcuno mi diceva musica elettronica io avevo le convulsioni e schiumavo cose. Non sono sicuro di questo evento, ma deve essere successo. Poi pausa, più nulla, fino a quando per qualche mese ho esaurito un nastro intero di “The fat of the land” mentre mi aggiravo in una Bologna in piena febbre techno industrial.
Già, Breathe… Gli stilemi evidenti nel videoclip sono quelli tipici di una subcultura squat decadente ed eversiva, luci che vanno e vengono, tribali disegnati tra spalla e petto, lenti a contatto colorate, scritte gotiche sulla pancia, scarafaggi nel lavandino, denti neri, occhi neri, luci che vanno e vengono, catene, muri scrostati, divani vittoriani, roba molto matrix insomma ma senza Keanu Reeves e due anni prima di matrix. Un videoclip ben fatto e capace di restare impresso nell’immaginario collettivo, in netta controtendenza peraltro con quello MTV, i cui protagonisti sono il compianto Keith Flint, che con voce punk tiene le redini del giuoco duettando con il compare Maxim. In disparte, sbracato su un divano, sta Liam Howlett con gli altri membri della crew Prodigy, sembra un figurante e invece fa tutto lui, i Prodigy suonati sono lui, ma senza i Prodigy performati forse non sarebbero mai arrivati ad essere i Prodigy del bottone inteso come grande botto, quelli che oggi che Flint è morto nella sua casa lo hanno eletto icona (pop?) anni ’90.
Veramente si potrebbe pensare a Flint come ad un novello Sid Vicious, figure musicalmente marginali eppure volti definitivi e necessari per la consacrazione al grande pubblico, sintesi perfetta per il successo planetario.
E infatti da due giorni a 'sta parte non si può evitare di incappare nella lingua di Flint, le creste di Flint, l’eyeliner di Flint, la sua felpa stelle e strisce, la lingua con il piercing o forse sono due, insieme alle sue varianti più recenti un po’ più stilose ma sempre assai alternative.
Questo è “The fat of the land”. Un disco che suona incredibile, pompa bassi e batterie tra alti e bassi, lento e sfrenato, un’irruzione easy listening nel mondo elitario dell’elettronica che conta, facile ma raffinato, per tutti ma esclusivo nelle sue perle, insomma, a modo suo una pietra miliare di musica con la M maiuscola, che si porta dietro un know how ed un talento fuori dal comune, insieme alla capacità non casuale di fare breccia nell’immaginario di un pubblico globale, là dove forse inconsapevolmente è rimasto, quantomeno per chi ha vissuto quella stagione o quelle immediatamente successive.
Non ho più seguito francamente quanto fatto dai Prodigy in seguito, quel poco che ho sentito non mi ha mai spinto a ripetere l’esperienza o ad approfondire, qui è interessante notare invece come i Prodigy siano finiti per essere identificati in blocco con il loro disco più rappresentativo, di fatto rimuovendo se non il sound sicuramente l’approccio meno costruito e meno stereotipato dei loro primi anni di attività. Un punto senza nè pre nè post, che diventa tramite la figura del Flint crestato "Gli anni '90".
Questa è una storia a ritroso e non può che passare dal secondo disco “Music for the jilted generation”, disco cui non sono minimamente affezionato, ma che include due dei miei pezzi preferiti dei Prodigy, ovvero “Full throttle” e ovviamente “Voodoo People”. Full Throttle non ha videoclip che io sappia, e quindi non ha senso all’interno di questo post, eppure non riesco a non includerla, a monito di quella che era il sound della band, oltre che per la cover del disco e già dell’immaginario ad effetto che essa suggerisce, un volto gridante impresso nel metallo che sembra volersi staccare dalle convenzioni di questa orribile vita che ci tocca sopportare giorno dopo giorno, versione british di Han Solo criogenizzato per diletto e vendetta dal perfido Jabba.
Tanto è cool e cromata la copertina, tanto è buffa invece la grafica interna al disco, eppure epica nel suo richiamare la TAZ rave con estetica fricchettona, capello lungo, sound system, fuck the police.
Ci sono tre elementi musicali nel disco che possono tracciare la rotta tra lo ieri, l’oggi, e la tensione al successo commerciale che sembra guidare le sacrosante aspirazioni dei gruppo.
Poison è evidentemente precursore di Breathe, il nostro Flint recita la parte dello spiritato avvelenato, ma, curiosità, non ha creste né crestine né collanoni, bensì ha i capelli lunghini e di un bel rosso, seppur lerci nelle necessità del videoclip. C’è malessere in Poison, malessere e stile, bave liquorose dalla bocca, l’urletto isterico di Flint (sarà lui?) luci che si accendono e spengono, si accendono e spengono. Questo per i fans alternative ma affamati di produzioni che suonano cool, occhiali da sole come piovessero nonostante le luci che come sempre vanno e vengono.
Il cash doveva venire, e forse è venuto davvero, grazie a “No good – let’s start the dance”, la hit che più hit non si può. Qui si fa evidente, andando a ritroso (in maniera non scientifica rispetto all’uscita cronologica dei videoclip, beninteso), il cambiamento di immagine e passo dei Prodigy, visti sia ex ante sia ex post. Voce black che ammicca alla disco, il beat è quasi cassa lineare, insomma, ci va molto vicino. Flint appare qui nella sua fase di trasformazione, tra il vecchio Flint e il nuovo Flint. La balotta di amici va a una specie di rave fichetto dove le stanze non sono sovraffollate di gente strafuori sudata e molesta, sono vestiti come dei bambocci ma poi il ritmo indiavolato del suond che ti piglia dentro li corrompe nell’anima e a Flint mettono la camicia di forza e le catene, a Maxim mettono le lenti a contatto a forma di gatto, eccetera. In una sorta di autodenuncia si abbandonano le frivolezze della giovinezza per andare incontro ai bisogni del cash, che vuole una qual certa genuinità provinciale sacrificata sull’altare del profitto in nome di una ben più remunerativa messinscena fatta di bave nere muri scrostati occhi di gatto lesbiche che vomitano a spruzzo addosso a spogliarelliste ninfomani. Il Flint che viene incamiciato qui è un bravo ragazzo corrotto dalla musica del demonio.
Lo stesso demonio che corrompe Maxim nella bella storia ambientata tra i banani di Voodoo people. Liam in fuga libera i suoi amici durante un viaggio nel Caribe perseguitati da una specie di sciamano che è poi il gigante Leeroy Thornhill truccato da teschio con il cilindro che finirà per infettarli tutti con lo spirito della musica techno.
Flint in questo disco sembra essere predestinato ad essere maltrattato. Appeso come un salame ad un albero viene ficcato da Liam dentro una valigia (questo lo scopriamo poi) ed è più morto che vivo, a momenti gli passano sopra con il fuoristrada, riesce a conservare i suoi capelli lunghini di un bel rosso, e siamo secondo me proprio qui alla fine del percorso freschezza dei prodigy, nell’intrapresa della scalata alle hit ed a MTV. Finchè Flint ha i capelli, c’è una fase a, dopodichè, persili, c’è la fase b, il successo, la maschera che si incolla alla faccia insieme con l’eyeliner e i piercing. La musica di Voodo People è senza troppi compromessi, il suo riff portante diventerà il jingle di una trasmissione dedicata alla techno nelle notti della vecchia Tmc2, erede di Videomusic, roba del passato. Comunque video bellissimo, copertina meritata, questi giovani spaccano di brutto.
E qui arriviamo alla fase più hype della carriera Prodigy, che sì è “Full throttle”, forse, ma è in precedenza tutto l’album “Experience”, e a sua volta è in verità nei primi EP prodotti dalla band, parliamo di primissimi anni ’90, parliamo di 3 pietre miliari che pur nella loro germinalità ed ingenuità sono il sale della gioia dei primi rave, pura danza e ricerca dell’empatia, alla fine voglia di fare festa senza rompicoglioni, mettiamola così, lo smiley che sorride che sembra una pasticca e sicuramente lo è, ma di quelle pasticche spensierate che erano proprie dell'alba degli anni '90.
Parliamo di “Out of space”, inserita dopo anche nell’album Experience, di Flint che fa il cretino davanti alla telecamera sorridente, o vestito da boh una specie di gallina che fa una sorta di ballo volatile con dei guanti da cucina, niente bave nere dalla bocca capelli unti e occhi felini. Uno struzzo guarda in camera mentre il cielo è virato in un giallo che ricorda esperienze lisergiche o il fallout di Nagasaki. La campagna e i tralicci di qualche centrale nucleare fanno da cornice alla danza, animata da una vitalità contagiosa pur fuori tempo nell’era dell’obbligo della costruzione del brand, centinaia di struzzi corrono in corteo mentre noi si va a ballare dai prodigy perché l’anima è Peter Tosh, amen. C'è una spensieratezza che non abbisogna di essere cool per poter essere rappresentata senza vergogna, da questi quattro sbarbi che ballano come dementi, indifferenti allo scetticismo di noialtri bacchettoni del cool e schiavi del trend.
“Everybody in the place”, un inno a modo suo, il contrasto tra le luci che vanno e che vengono che verranno poi nelle stanze scrostate e l’umiltà di uno scenario urban periferico senz’altro che la danza ed un viraggio esasperato dei colori a reintrodurre la vita e l’autodeterminazione del proletariato giovanile lontano dalla catena del lavoro e del tritacarne capitalista, espresso questo forse in maniera un po’ tendenziosa, e sembra di esagerare eppure è proprio Flint a dichiarare poco tempo fa che senza Prodigy sarebbe finito a lavorare in qualche mac donald’s, ed a Flint questo, chissà se in maniera completa o incompleta è riuscito alla fin fine, e ne siamo felici per lui.
Chiudendo con “Charlie”, con la techno vecchia usata campionando un cartone vecchio e vedere questi gioppini con delle buffe tutone ballare tra i laser sulla base di un beat percepito oggi come decisamente fuori tempo ed i polisynth di plasticone come i tessuti delle tute, a ribadire, forse in maniera un po’ romantica, che alla base di tutto ci sono dei bambini che guardavano la tv negli anni ’70, anche perché la periferia là fuori faceva schifo e allora i colori e i suoni che hanno animato le loro vite e le loro danze sono stati un frutto della loro sconfinata fantasia. Poi, crescendo, hanno cambiato qualcosa, nel bene, nel male, chissà, forse più per forza che per scelta.
Nella percezione dei simboli senza storia non esiste mai un percorso, gli anni ’90 diventano un’etichetta atemporale fissando un momento preciso ed elevandolo a tutto. Eppure, è proprio nella successione delle cose che tutto si spiega e diventa più interessante, e ripercorrere un po’ a spanne la storia dei Prodigy ci porta a dare uno spessore altro anche a Keith Flint, che tutti conosciamo di faccia, ma con cui non ci siamo mai fermati a fare due chiacchiere per davvero.