Società | L'anniversario

Sessant'anni dalla parte degli ultimi

Padre Alex Zanotelli racconta i suoi sei decenni di sacerdozio e l'esperienza di un missionario comboniano di Lana ormai dimenticato, Josef Ohrwalder. Domenica 7 luglio pellegrinaggio in val di Non.
alex zanotelli
Foto: A:Z.
  • Sono giorni di festa per padre Alex Zanotelli. Sessant'anni fa iniziò la sua “vita religiosa”, il suo sacerdozio, quello che lo ha portato a vedere Dio sul volto tumefatto delle vittime, sui piedi incalliti dei dannati della terra, che si arrampicano sulla collina dei rifiuti nelle grandi discariche africane alla ricerca di un cencio per vestirsi o di qualche pezzo di legno che gli faccia da sedia. O sulle facce addolorate di donne inchiodate alla prostituzione coatta in quell'inferno di Korogocho, la baraccopoli del Kenya dove vivono sardinizzati centomila impoveriti, piagati dall'Aids e dalla fame. "Ci vollero due anni – racconta – prima che i miei superiori si decidessero a lasciarmi fare quest'esperienza di immersione totale nel sottomondo degli ultimi di Nairobi. Nessun bianco aveva mai messo piede nella spaventosa baraccopoli. Io volevo vivere come loro, costruirmi una baracca di lamiera fra i rigagnoli della fogna e condividere il loro dolore per dare un segno di vangelo alla speranza. Volevo esser convertito alla vita vera, autentica, liberandomi da tutti gli orpelli materiali e anche teologici appresi in tanti anni di studio. Condividere la vita per scoprire davvero il vangelo della povera gente. Perché quel Dio in cui credo lo si capisce solo dal basso, lo si incrocia nei sotterranei della vita e della storia, lì dove lottano, pregano e sopravvivono gli ultimi degli ultimi". 

    Era il 29 giugno del 1964. Alex aveva scelto di entrare nell'ordine di comboniani. La messa di ordinazione venne celebrata nel tempio votivo di Verona, luogo di nascita di Daniele Comboni, fondatore dell'ordine. Non sapeva Alex dove lo avrebbe portato quella vocazione. Aveva tantissimi dubbi: «Mi dicevano che ero inadatto a quella vita, che sarebbe stato un falimento». Alex veniva da Cincinnati, negli States, dove per otto anni aveva studiato filosofia e teologia. Era spaesato ma pronto a partire per l'Africa. 

    Dopo sessant'anni i dubbi non sono spariti ma sono diventati fonte di riflessione critica su una storia che non è per niente fatta anche se il sistema la imbriglia in tutte le forme di ingiustizia possibili. E quei dubbi e quella riflessione sono emersi chiaramente nelle celebrazioni di festa che ha tenuto prima a Napoli, nel quartiere Sanità dove ha scelto di continuare la sua missione dopo l'esperienza di Korogocho, poi a Rovereto, il 30 giugno, dove vive la sorella Luisa e dove sono sorti gruppi di appoggio e solidarietà alle sue scelte preferenziali per i poveri. E domenica 7 luglio ci sarà un pellegrinaggio di ringraziamento alle ore 9 e una messa alle ore 10 nella “sua” val di Non, a Baselga di Bresimo, vicino a Livo, il paese in cui nacque il 26 agosto del 1938. 

    Padre Alex partiamo dalle origini, proprio qui dalla val di Non. Ricordo uno dei nostri primi incontri alla fine degli anni Ottanta. Tu eri appena tornato da Korogocho per un momento di riposo e io venni a trovarti nella tua casa di Livo. C'era la mamma Antonietta e il papà Alessandro. Ricordo il sorriso dolce della mamma che ripeteva che eri un ragazzo scapestrato, senza messuna voglia di studiare e con seri problemi di matematica. Era davvero così? 

    Mamma mia che disastro! Davvero. Non volevo studiare. Avevo sempre insufficienze in matematica. Ne combinavo di tutti i colori. Quanto ho fatto penare i miei genitori in quegli anni! Vivevo sempre fuori, con gi amici ne facevamo tante, ma tante.... Per fortuna che poi ho fatto dei percorsi dove la matematica non era prevista come materia di studio e mi sono ripreso. Ma di mia mamma e di mio padre porto impressa nel cuore una grande lezione: la dignità e l'amore per il prossimo. Mia mamma è stata una delle donne più proiettate alle sofferenze e alle pene dell'altro che io abbia mai conosciuto. Quando c'era da dare una mano, nel paese, per curar ammalati o vestire i morti, lei non si tirava mai indietro. Aveva una delicatezza e un amore davvero unici. E mio padre è stato un antifascista orgoglioso al punto da perdere il lavoro per non aver voluto fare la tessera del partito. Mi diceva spesso: «Io posso girare per il paese a testa alta». Aveva ragione. 

  • La Messa: Il 30 giugno a Rovereto padre Alex ha celebrato una funzione per i 60 anni Foto: A. Z.

    La tua è stata una vocazione precocissima...

    Non parlerei di vocazione, quella è una cosa che matura nel tempo. Diciamo che mi affascinai alla realtà missionaria a dieci anni quando venne un comboniano a scuola a parlarci della sua vita fra i poveri. Tornai a casa e dissi ai miei genitori che avrei voluto fare il missionario. Allora mi presero in parola e attraverso il parroco del paese entrai in contatto con i comboniani e iniziai gli studi nelle scuole dell'ordine, le medie a Trento e il liceo a Firenze. 

    Poi ti spedirono negli Stati Uniti, om Ohio, a Cincinnati, per gli studi universitari in filosofia e teologia. Sei rimasto lì dal '56 al '64. Anni di grandi sconvolgimenti e fantastiche utopie: il mito dei Kennedy, le grandi manifestazioni per diritti civili e la pace, il rinnovamento del Concilio Vaticano II, Martin Luther King, Thomas Merton..

    Andai perfino a trovarlo nella sua abazia nel Kentucky. Thomas Merton per noi rappresentava l'utopia di un nuovo modo di vivere la vita religiosa, ossia non abbandonando il mondo, ma entrandoci sollevando le contraddizioni e cercando di rappresentarlo con una visione evangelica. Negli States ho avuto la fortuna di aver degli insegnanti che respiravano questo rinnovamento della Chiesa che proveniva dal Concilio. Ricordo che lessi dei libri di esegesi biblica molto avanzati. Leggevo Teilhard de Chardin, il gesuita paleontologo fortemente criticato dai settori più tradizionalisti della Chiesa. E quando tornai in Italia, nel 1964, mi dissero che era meglio lasciar perdere le opere di Teilhard de Chardin. Mi caddero le braccia. Dovevo decidermi se continuare e abbracciare davvero la vita religiosa o uscirne. Ero pieno di dubbi, anche se sentivo che il Concilio avrebbe cambiato molte forme stantie dentro la Chiesa. Decisi di continuare anche perché oramai avevo introiettato un'idea di Dio che si fa prossimo all'uomo e dunque attivo e presente dentro la storia. Non u Do lontano e giudicante, ma un Dio vicino, che si fa volto nelel persone che incontriamo. Venni ordinato sacerdote il 29 giugno del 1964 e mandato in Sudan dove mi misi a leggere i libri di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana (minuscolo paese del fiorentino) che stava sperimentando una pratica liberatrice di educazione a partire dalla parola come strumento di una coscienza critica e emancipatrice rispetto ai meccanismi della disuguaglianza e dell'ingiustizia. 

    È davvero un grande peccato che l'Alto Adige si sia dimenticato di questo grande testimone della fede e del coraggio civile. Ohrwalder è stato uno dei precursori della storia comboniana.

  • Foto: Screenshot F. Comina

    Il Sudan è un po' il cuore dell'esperienza missionaria comboniana, il paese da cui tutto partì e dove Comboni sperimentò il suo amore per il continente nero, la sua “Nigrizia”. Ma un altro grande comboniano, un giovane nativo di Lana, Josef Ohrwalder, visse i tumulti della rivoluzione mahdista con la prigionia e la fuga. Questo giovane altoatesino ha scritto un libro che ricostruisce i “dieci anni di prigionia” dentro quella rivolta del Mahdi. Un testimonee un protagonista della storia africana. Eppure il suo nome in Alto Adige è praticamente sconosciuto. Come mai? 

    È davvero un grande peccato che l'Alto Adige si sia dimenticato di questo grande testimone della fede e del coraggio civile. Ohrwalder è stato uno dei precursori della storia comboniana. Comboni lo mandò nell'Africa centrale nel 1880. Fu spettatore dei rivolgimenti dovuti alla rivoluzione del Mahdi, politico e mistico sudanese che battè l'esercito britannico nel 1885. Ohrwalder venne fatto prigioniero nel 1882 e riuscì a liberarsi nel 1891. Scrisse un diario pieno di cronache e riflessioni, utilizzato poi dagli inglesi (questo fu un peccato, ma Ohrwalder non aveva colpa), per riconqistare il territorio. I comboniani lo hanno contrastato nonostante lui sia stato fedele ai principi evangelici e missionari, anzi, fu profetico. Morì nel 1913 dopo essere stato in Egitto e poi di nuovo in Sudan. La sua storia andrebbe ricostruita, rivisitata e raccontata. Lana dovrebbe valorizzare la storia di questo suo importante concittadino comboniano.

    Dopo il Sudan hai vissuto gli anni forse più intensi e duri con la direzione di Nigrizia e lo scontro politico che ha portato alla tua defenestrazione. Ma quello è stato forse anche il periodo della tua svolta. O sbaglio?

    Il periodo di Nigrizia, dal 1978 a 1987 è stato forse il momento centrale della mia nuova visione missionaria, non solo come aiuto e sostegno ai poveri, ma come presa di coscienza e denuncia delle cause che generano povertà e ingiustizia. Il primo attacco mi venne da Joseph Ratzinger, allora prefetto per la dottrina della fede che intimò i miei superiori chiedendo di ritrattare gli errori contro la dottrina cristiana e contro la teologia che sarebbero venuti dalla lettura e dall'analisi di Nigrizia. Rimasi al mio posto grazie all'atteggiamento saggio del mio superiore che si prese tempo e alla fine lasciò che la linea rimanesse tale. Poi, quando feci il famoso editoriale su “Il volto africano della fame italiana” - che di fatto anticipò la corruzione nella Dc di almeno sei anni rispetto alle indagini di Tangentopoli - si scatenò l'inferno. Con quell'editoriale misi in luce i traffici italiani in armi del governo italiano con l'Africa e la miseria di una cooperazione italiana grazia alla quale noi ci inrassavamo. I potenti si mossero immediatamente. Andreotti e Spadolini fecero pressione sul Vaticano perché mi togliessero dalla direzione di Nigrizia. Ricordo la sfuriata di Flaminio Piccoli che disse: “Mai avrei pensato di finire sotto accusa da un mio concittadino!”. Con Nigrizia avevamo già svelato l'intreccio affari, mafia e politica. Io venni defenestrato (al termine di una seduta drammatica della direzione generale dei Comboniani a Roma il 19 dicembre del 1986 ndr) ma di là nacque tutto il lavoro dei Beati i Costruttori di pace, che porterà alle grandi convention pacifiste all'arena di Verona e a tanti progetti di cooperazione dal basso e di pace. 

    L'esperienza di Nigrizia mi aveva confermato che non ci può essere una missione senza una compromissione totale con le attese della povera gente.

    Poi ci fu davvero l'Africa, quella più tragica, più cupa, più nera: Korogocho. 

    L'esperienza di Nigrizia mi aveva confermato che non ci può essere una missione senza una compromissione totale con le attese della povera gente. E che bisognava cambiare la modalità di fare missione. Bisognava abbassarsi totalmente fino a prendere dimora fra gli impoveriti della storia. Ho chiesto al mio superiore di farmi calare nel caos di Korogocho, una delle tante baraccopoli del Kenya, lasciandomi vivere dentro una baracca di lamiera come vivevano tutti. Senza nessun “privilegio”. Ci vollero due anni. Quando mi diedero l'ok scelsi come giorno di ingresso quello del battesimo di Gesù nel Giordano. Ho chiesto ai poveri di darmi il loro battesimo per farmi uscire dalla condizione borghese per rendermi pari a loro. Per dodici anni ho vissuto fra le bolge di questo inferno che per me è stato un paradiso di esperienza e conoscenza. Quando ho deciso di rientrare in Italia, la comunità di è stretta intorno a me. Mi hanno detto: “Alex inginocchiati!” Ho sentito le mani di tuti premere sulla mia testa e dopo lunghe orazioni di vario tipo mi hanno detto: “Ora Alex torna dalla tua tribù bianca per convertirla”. Avevano capito tutto, ossia che se nonsi converte la tribù banca, non c'è speranza per questo mondo prigioniero di un sistema che ha fatto del profitto l’unico interesse e che ci ha trascinati tutti nella spirale del “capitalismo della sorveglianza”, come lo ha definito la ricercatrice americana Shoshana Zuboff, un sistema spietato dove il 10 per cento dell'umanità consuma il 90 per cento delle risorse disponibili e dove la guerra ha ripreso infiammare l'Europa gettando nubi scure su tutto il mondo. 

    Il 18 di maggio ti abbiamo visto tutti accanto a papa Francesco all'Arena di Pace a Verona. È stato un momento molto bello che legittima la tua vita sacerdotale con le tue scelte. Non pensi? 

    Sì è stata una giornata bellissima. Ho avuto l'onore di sedere accanto al Papa e di accompagnarlo. Forse qualcuno avrà pure storto il naso in Vaticano, ma dobbiamo essere grati a Francesco per la sua linea pastorale che guarda sempre verso il basso e continua, inesorabilmente, sulle coordinate del vangelo, a denunciare le pratiche disumane di questo mondo, dal rifiuto dei migranti allo sfruttamento della terra fino alla denuncia continua della guerra e del traffico di armi arrivando persino a dire che non solo l'utilizzo delle armi è bestiale, ma la produzione stessa delle armi è qualcosa di disumano. Perché lo sappiamo tutti che le armi, una volta costruite, verranno utilizzate. Io sono infinitamente grato a Francesco per le sue parole profetiche e per la sua modalità di fare chiesa.