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Ora, in questo male che nutre il tempo

"A un figlio che muore per questo non è dato risuscitare". Versi in virtù della pietà, in una guerra che vuole recuperare i confini perduti per un delirio di potenza.
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Foto: (c) Facebook

Eccolo di nuovo il percorso della negazione, la continuità di modelli conosciuti per un dolore voluto, per la morte e la drammatica fuga di chi la subisce. Eccola di nuovo la guerra che vuole recuperare i confini perduti per un delirio di potenza. La malattia del narcisista maligno che non riconosce alcun limite e noi civiltà evoluta che lo abbiamo allattato. Figlio diabolico che abbiamo allevato col silenzio della ninna nanna, incoraggiando il demone che cresceva, altre volte lo abbiamo fatto. Si sviluppava, lo abbiamo cullato nei nostri taccuini facendo spazio agli ori e agli argenti e nel nostro abbraccio lo abbiamo potenziato, alimentato con l’accordo, acconsentito alla sua legittima aspettazione fino a stringergli la mano, lo abbiamo celebrato, esaltato con parole di lode, che fosse per interesse o servilismo noi civiltà evoluta lo abbiamo cresciuto.

Mormoriamo il timore, lo sgomento e urliamo il dissenso, poiché nella guerra tutto è solido, tutto è concreto

Ora, in questo male che nutre il tempo, qui di nuovo pronunciamo la paura e ci diciamo abbracciandoci il coraggio, elogiamo il valore e raccontiamo l’eroismo. Mormoriamo il timore, lo sgomento e urliamo il dissenso, poiché nella guerra tutto è solido, tutto è concreto. Concreto è questo corpo che deve lasciare tutto. Eccoli dunque i corpi della civiltà diventati poveri corpi, allontanati dal loro cammino intrapreso, fatti uscire di via e trascinati al peggio. Questi corpi usati e traviati, che subiscono una costrizione e nella sensazione del tremendo diventano impersonali, poiché non possono dire: io. Il loro volto infatti, così uguale al mio e al tuo lettore, il nostro viso dunque, che non può essere che nudo, poiché dal viso ciò che è visibile. 

 

Ma cosa è visibile in questo drammatico tempo? Quale visione, se non la condizione di poter dire: vedo. So. Conosco in quanto vedo, poiché il mio corpo ha una testa e la testa ha occhi che guardano e orecchi che ascoltano. E mi scopro testimone, assistendo alla conoscenza della storia, dalla quale sembra che nulla io abbia imparato. Sebbene sia testimone di quel corpo che si trova al centro dell’esperienza che gli uomini hanno della guerra. Quel corpo utilizzato e disciplinato da un esercito, che rappresenta il coraggio, che può essere ferito e ucciso. Del corpo seviziato, della tortura crudele di chi iscrive a sangue la sentenza sul corpo condannato. Di quel corpo che per tre soldi finisce morto nei deserti, annegato nel Mediterraneo, perché fugge dalla miseria e dalla disperazione. Testimone del corpo femminile privato della sua dignità. Del corpo degli adolescenti, dei più deboli, di chi è appena nato e non sa. 

Perché a un figlio che muore per questo
non è dato risuscitare

E se è vero che conosco tutto ciò, dove rimane l’intimità della carne dunque? 
Quale identificazione interiore con essa? È una difficile prova lo sguardo consapevole, che devia volentieri e non vuole sapere. Io sono e non voglio sapere, ottusità di spirito. Insipienza che mi inganna nell’opinione, perché non voglio vedere, perché non voglio sentire. 
È una difficile prova lo sguardo spirituale del corpo. Facoltà del sentire, di avvertire le impressioni profonde, coscienza è la consapevolezza di me stessa e del mondo esterno con cui sono in rapporto. 

 

Versi in virtù della pietà

Stabat mater dolorosa
iuxta crucem lacrimosa
dum pendebat filius.

Perché a un figlio che muore per questo
non è dato risuscitare.
Sia dunque restituito alla madre che tace appassita,
alla madre che urla. Addolorata virtù dell’amore.
Sia questo figlio deposto nell’incavo tra ginocchio e seno,
solco scavato a vita. Che in questa valle,
letto di lago, cavità riempita a lacrime
succede ogni volta di nuovo un’attesa.
Poiché una madre non capisce la guerra, la madre
dei mondi e dei figli e di questo soldato
che uccide e non torna.