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Società | Potere e narrazione

La Germania sì che ha fatto i conti

E l'Alto Adige/Südtirol? Dall’intervista a Tommaso Speccher, autore del libro già vincitore del premio “Roberto Visintin”, esempi e spunti di riflessione per una rielaborazione della storia locale.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Tommaso Speccher e il libro
Foto: Luca Marcon, immagine elaborata da internet
  • «Nel discorso pubblico italiano e internazionale c’è una formula che ritorna costantemente: «la Germania ha saputo fare i conti con il nazismo». Se però andiamo a verificare quanto c’è di vero in questa frase, ci accorgiamo quanto il passato nazista abbia condizionato il lungo dopoguerra tedesco, generando una tacita e continua tensione, ma producendo solo occasionalmente effettive prese di responsabilità. In questo libro scopriremo come, dopo decenni di oblio e di silenzio interessato, si è cominciato ad affrontare questo tema. Soprattutto dopo la riunificazione del 1990, quando la rielaborazione dei crimini nazisti si fa strumento di unità politica e collettiva. Il periodo della Guerra fredda, invece, si distingue per la mancata riflessione sul passato; un passato sospeso, spesso rinnegato. Partendo dalle rovine della Germania post-bellica, passando per i movimenti studenteschi del ʼ68 e arrivando ai memoriali odierni, queste pagine raccontano biografie chiave, vicende emblematiche e dibattiti esemplari. E mostrano che “i conti” sono stati fatti, sì, ma solo in parte e, forse, troppo tardi.»

    Quella che precede è la sinossi del libro «La Germania sì che ha fatto i conti con il nazismo». Per descriverne in estrema sintesi il contenuto giova rifarsi alle motivazioni della commissione giudicatrice del premio letterario “Roberto Visintin” citato nel sottotitolo:

    «Il libro di Tommaso Speccher, ripercorrendo in chiave storica il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale in Germania, evidenzia molti temi decisivi non soltanto per quella Nazione liberata dal nazismo, ma per tutti i popoli e per ogni persona. Emblematicamente, la grande e per certi versi finora poco sottolineata fatica dimostrata dai tedeschi nel “fare i conti con la storia”, pone problemi che trascendono quei particolari tempi e spazi. La questione della giustizia si intreccia con quella fondamentale della colpa, così come la condanna si coniuga singolarmente con il decisivo tema della memoria. Speccher, con un linguaggio semplice e con una formidabile preparazione storico scientifica, accompagna il lettore in un viaggio che suscita indignazione e ammirazione, inquietudine e rimorso, interesse e passione. In ogni caso, il volume spazza via i pregiudizi e le frasi fatte. Non si tratta di “aver fatto i conti con il nazismo”, ma di identificare un lungo processo di trasformazione, costituito da slanci in avanti e ricadute nel passato, là dove la questione della qualità del ricordo rimane aperta maggiormente a nuovi interrogativi piuttosto che a risposte definitive»

    Luca Marcon
    Dottor Speccher, caro Tommaso, nel rinnovarti i complimenti per il tuo saggio che ti ho fatto di persona vorrei attirare la tua attenzione su alcune parti del libro che mi hanno particolarmente colpito.
    Per prima, la questione del mito della Wehrmacht “pulita” opposto alle “cattive” SS quali vere e uniche responsabili delle azioni criminali e soprattutto genocidarie del regime nazista.

    Tommaso Speccher
    Quello delle responsabilità dell’esercito tedesco nell’evoluzione della Shoah fu uno dei grandi temi repressi o sospesi dal dibattito pubblico nella “Prima Germania”, fino al 1989. La mancata dichiarazione della Wehrmacht in quanto “organizzazione criminale” - al pari appunto delle forze di Polizia (SS e Gestapo) e del partito nazista (NSDAP) - da parte delle corti di Norimberga generò una sorta di discolpa collettiva che andò ben oltre i soldati dell’esercito, riguardando la società intera.
    Tra il 1929 e il 1945 erano stati infatti quasi 18 milioni i soldati di ruolo e un giudizio sulla Wehrmacht non poteva che combaciare con un giudizio sulla società intera. Gli alleati non potevano permettersi di ripetere gli errori compiuti alla fine della Prima guerra mondiale con la Pace di Versailles, che aveva sostanzialmente condannato l’intero popolo come “unico responsabile di tutti i crimini, danni e devastazioni della guerra”. Indicare la Wehrmacht come organizzazione criminale avrebbe sostanzialmente significato la messa sotto accusa della società intera, cosa non voluta dall’alleato americano. In particolare, i due pubblici ministeri dei processi di Norimberga Jackson e Taylor avevano ben chiaro quanto fosse necessario distinguere le responsabilità nella loro complessità e quindi specificità decisionale e di potere. Se è vero che nelle varie conferenze tenute dagli alleati prima della fine della guerra si erano indicati i “quattro pilastri organizzativi” dei crimini nazisti - partito, le forze di polizia, l’esercito e la grande industria - quello a cui si assistette ai processi di Norimberga fu di fatto un progressivo svuotarsi delle responsabilità generali dell’esercito e dell’industria e la proclamazione delle forze di Polizia e del Partito come organizzazioni criminali principali. Questo meccanismo di allentamento è da alcuni ricondotto alla contemporanea ed evidente emersione delle tensioni dell’imminente Guerra fredda; per gli alleati occidentali si poneva come indispensabile il mantenimento in prospettiva di una forza di difesa, per lo meno formale, nella Germania post-bellica. La nascita della Bundeswehr del 1955 fu il risultato di questi interessi e scelte.

    Veniamo ora ad Hannah Arendt e alla sua analisi del «Processo Eichmann». Nella «Banalità del male» la filosofa già allieva di Heidegger ne traccia una figura a guisa di un banale servitore del regime hitleriano, un piccolo, grigio burocrate appena consapevole degli effetti delle sue azioni.
    I lavori successivi, tra tutti quello di Bettina Stangneth, rovesciano completamente questo paradigma riconoscendo a Eichmann la volontà cosciente e determinata di compiere i crimini per i quali viene condannato in Israele alla pena capitale nel 1963.
    Come è possibile che Arendt, forse una delle intellettuali più lucide sul tema, sia potuta incorrere in un errore di valutazione di questa portata?

    Le riflessioni di Hannah Arendt sono un passaggio indispensabile per poter rapportarsi alla complessità della Shoah e agli aspetti di ordine politico, sociale e filosofico ad essa connessi.
    Rimane il fatto che Hannah Arendt era una donna del suo tempo, un’era ancora forse troppo vicina a quei crimini efferati ma soprattutto segnata da una scarsezza nella rielaborazione documentale e archivistica. Arendt era alla ricerca di una teoria generale dentro cui spiegare il fenomeno delle violenze naziste, da fare rientrare in una teoria filosofica generale. Quello che non poteva comprendere era la peculiarità e specificità di quei crimini, compiuti all’interno di un sistema criminale perpetrato da migliaia di approfittatori, uomini in carriera, specialisti del genocidio, le cui carriere ci danno al giorno d’oggi l’immagine di quanto ognuno avesse in realtà un ruolo indispensabile, implementato e voluto all’interno della Shoah. Oltretutto le teorie complessive come quelle della Arendt hanno purtroppo segnato negativamente la prima generazione di studiosi e ricercatori, se non del pubblico generale, dando forma ad una sorta di “inevitabilità dei crimini”, come se altro non fosse stato possibile e come se in qualche modo nessuno ne fosse in realtà stato responsabile. Quello a cui le ricerche degli ultimi vent’anni ci hanno messo davanti è invece un sistema di crimini, risultanti da scelte politiche, strategiche, spesso anche economiche, dietro cui si nascondevano interessi carrieristici e personali, assolutamente non inevitabili ma voluti e in un quadro di consapevolezza organizzativa. La stessa “testimonianza” di Eichmann a Gerusalemme fu in realtà risultato di una specifica scelta difensiva dell’imputato, il cui profilo di criminale consapevole era ben diverso da quel “burocrate passivo”, emergente dalle pagine della Banalità del male. Ma d’altronde fu solo a partire dagli anni ’90, quando emersero le registrazioni delle interviste fatte da Willem Sassen che si svelerà il vero volto di Eichmann stesso, criminale e approfittatore seriale.

    Nel 1996 viene pubblicato in Germania «Hitler’s Willing Executioners» ("I volonterosi carnefici di Hitler") dello storico Daniel Jonah Goldhagen, nel quale secondo l’autore, cito dal tuo libro, «furono le convinzioni antisemite dei tedeschi la causa principale dell’Olocausto».
    Al riguardo hai evidenziato il «carattere pregiudiziale, se non razzista» di questa tesi». Il lavoro di Goldhagen, però, non è un unicum ma la naturale prosecuzione degli studi che lo hanno preceduto: tra tutti, «Le origini culturali del Terzo Reich» di George L. Mosse, ma anche i lavori di Carl G. Jung sulla «Bionda bestia» del 1918 o il saggio «Wotan» del 1936.
    Richiamando la famosa affermazione di Max Weber laddove «sono i valori che intenzionano le azioni», rimani sempre della tua opinione?

    Credo che il mestiere dello storico e innanzitutto del divulgatore sia quello di rimettere assieme i fatti partendo dalle evidenze. Il giudizio su questi fatti si definisce poi in secondo luogo. Evidente è che il potere nazista, esercitato in nome di un fantomatico “popolo tedesco” se la prese indistintamente con chiunque non corrispondesse alla sua idea di società o di chiunque non si sottomettesse a quel modello. In nome di questa prassi sin da subito verranno condotti nei campi decine e poi centinaia di migliaia di tedeschi. Ebrei, omosessuali, Sinti, persone non autosufficienti finiti nell’operazione T4, tutta gente perseguitata e portata nei campi sin dal marzo 1933 erano tedeschi, era un pezzo di società tedesca, erano semplicemente cittadini tedeschi. Goldhagen, partendo anche da una storia personale e famigliare ha dato vita ad una lettura sostanzialmente rancorosa e generalista del “tedesco” nazista e criminale, formulando il principio di un antisemitismo sterminatorio alla base della cultura tedesca moderna. Ma la popolazione ebraica, assieme agli altri due milioni di “tedeschi” finiti nei campi di concentramento erano loro stessi parte di quella cultura. Il romanticismo stesso è figlio di una dialettica storica di Illuminismo e Sturm und Drang, in cui importante fu il contributo ebraico, penso qui a Moses Mendelssohn o Heinrich Heine. Certo la lettura di una cultura tedesca innatamente o genealogicamente sterminatoria ha il suo fascino epistemologico ma non sta in piedi. Altra cosa è ricostruire l’origine ideologica della morale nazista che è figlia anche certo di pezzi tradizione teutonica ma molto più devastante e significativa è la strumentalizzazione politica di quel riferimento. E vorrei qui citare proprio Hannah Arendt che nella sua intervista a Gaus disse semplicemente di come i nazisti fossero “una banda di gente senza scrupoli” che usò la propaganda e la miseria collettiva come strumento di raggiungimento del potere assoluto.

    Il tuo libro si occupa della Germania. Ma c’è un altro paese dell’area germanofona il cui coinvolgimento nel regime hitleriano è stato invece inizialmente elaborato attraverso un approccio per così dire originale.
    Mi riferisco all’Austria e cito tra i tanti esempi lo scandalo Kurt Waldheim o la polemica che vide su fronti opposti il primo ministro Bruno Kreisky e Simon Wiesenthal, il “cacciatore di nazisti” laddove il primo rinfacciò al secondo di essere un «Nestbeschmutzer» (“uno che sporca il proprio nido") dopo che Wiesenthal lo aveva accusato di aver formato un governo composto anche da ministri compromessi con il terzo Reich.

    Le modalità di rielaborazione del passato nazista da parte dell’Austria si differenziano significativamente da quelle della Germania proprio per l’adozione della cosiddetta tesi della prima vittima (Opferthese). Lo storico viennese Karl Stuhlpfarrer, profondo conoscitore delle vicende austriache che vanno dall’annessione del 1938 (Anschluß) al 1991, anno nel quale l’allora cancelliere federale Franz Vranitzky afferma pubblicamente le corresponsabilità del suo paese nel regime hitleriano, si esprime nei termini di un vero e proprio mito fondativo.
    Anche se tutti concordano nell’identificare il punto di genesi nella cosiddetta “Dichiarazione di Mosca” del 30 ottobre 1943 redatta congiuntamente dai ministri degli esteri di Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica, dove si afferma che l’Austria «il primo paese libero, che dovette cader vittima della tipica politica aggressiva di Hitler, deve essere liberato dal dominio tedesco», non è possibile in questa sede procedere ad un’analisi compiuta della sua formazione.
    Ciò che invece rileva ai fini della nostra disamina sono gli effetti dell’adozione di questo mito fondativo nella politica austriaca del secondo dopoguerra. Il rifiuto della responsabilità per i crimini, quando non la loro negazione, e la contestuale identificazione di tutti gli austriaci come vittime del nazismo sono posti alla base di quel processo di unificazione nazionale che trova i suoi epiloghi pubblici più significativi sia nella formazione del primo governo Kreisky formato da Spö e Fpö, nel quale entrano quattro ministri ex nazisti, che nell’elezione a capo dello stato di Kurt Waldheim del 1986, la cui emersione del passato nazista già durante la sua campagna elettorale pone progressivamente l’Austria in una situazione critica sulla scena politica internazionale.
    A distanza di quasi quarant’anni da quest’ultimo episodio, la storia dell’Austria di oggi racconta di un paese che ha finalmente intrapreso un percorso di rielaborazione del proprio passato. Ma la dimostrazione di come il mito della prima vittima non sia ancora da considerarsi del tutto superato la si deve alle dichiarazioni rilasciate nel febbraio del 2022 dal ministro degli esteri austriaco Alexander Schallenberg, che durante un’intervista rilasciata a Zib2, rubrica giornalistica del canale televisivo Orf, riferendosi all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha affermato: «Wir haben doch 1938 am eigenen Leib erlebt, wie es ist, wenn man alleingelassen wird» ("Noi abbiamo già provato sulla nostra pelle nel 1938 che cosa succede quando si è lasciati soli").

    La storia dell’Austria dopo la Seconda guerra mondiale è legata a filo doppio alla storia della minoranza nazionale di lingua tedesca che vive in Alto Adige/Südtirol e della sua tutela.
    In esito all’accordo De Gasperi/Gruber del 1946 e dopo 26 anni di lotte non solo politiche, la popolazione sudtirolese ottiene un’autonomia tra le più avanzate al mondo. Il padre riconosciuto di questa autonomia è Silvius Magnago: già autore nel 1940 di una tesi di laurea in lingua italiana alla facoltà di giurisprudenza di Bologna intitolata «I reati contro la razza ed il patrimonio biologico ereditario nella legislazione nazional-socialista», è volontario della Wehrmacht e opera nell’Est Europa. Tornato in Alto Adige alla fine della guerra, si circonda di altri reduci dell’esercito hitleriano e arriva al vertice del partito di maggioranza assoluta, divenendone il leader incontrastato e portando a casa il famoso Statuto di autonomia del 1972. Suo il motto «lei net roglen!» (“non rimestare il passato”).
    È questo che si deve fare, non rimestare il passato?

    Non credo basti una battuta per codificare i processi memoriali vissuti dalle società. Di “battute e frasi fatte” sul passato nazista se ne sono sentite per settant’anni anche qui in Germania, penso a quella molto elegante dello storico Ernst Nolte, che a metà degli anni ´80, in una società ancora ampiamente abitata da vecchi nazisti a fine carriera e in un quadro di processi mancati e riflessioni obliate lamentava come quello nazista fosse “un passato che non passa più” (eine Vergangenhiet, die nicht vergehen will). Che lo si voglia o no la riflessione sul proprio passato è un processo necessario e continuo e segna la capacità dei popoli di emanciparsi e definirsi come identità collettiva.

    Nel 2022 a Bolzano è stata inaugurata la mostra permanente per i cinquant’anni dell’Autonomia. Tra le madri dell’autonomia è citata Viktoria Stadlmayer in quanto «svolse un ruolo fondamentale nelle trattative autonomistiche per conto del Governo regionale del Tirolo».
    Del passato della signora Stadlmayer, però, non si fa alcun cenno.
    Divenuta membro del partito nazionalsocialista nel 1938 su sua stessa richiesta in qualità di “Alte Kämpferin” (“Vecchia combattente"), nel 1941 consegue un dottorato di ricerca a Vienna sotto la guida del professor Heinrich von Srbit, pangermanista e attivo antisemita studioso di storia moderna che nel 1938 ha già salutato l’ “Anschluss” (l’annessione dell’Austria al III Reich) come «die Verwirklichung des tausendjährigen Traums der Deutschen» (“la realizzazione del sogno millenario dei tedeschi”) iscrivendosi contestualmente al partito nazista con la tessera n. 6.104.788. In seguito all’occupazione della provincia altoatesina da parte dell’esercito hitleriano conseguente all’armistizio dell’Italia del 8 settembre 1943, con la creazione della cosiddetta “Alpenvorland” ("Zona d’operazione delle Prealpi”) Stadlmayer si trasferisce da Innsbruck a Bolzano assumendo la direzione locale di una sezione della “Alpenländischen Forschungsgemeinschaft” (“Comunità di ricerca sui territori alpini”, Brain-Trust della politica völkisch nazionalsocialista) e collaborando con le autorità naziste in merito alla questione demografica fino alla fine della Seconda guerra mondiale.
    Nella notte tra il 15 e il 16 settembre 1943 gli ebrei di Merano vengono catturati con la collaborazione attiva del SOD (Südtiroler Ordnungsdienst, “Servizio d’ordine sudtirolese” composto da esponenti della popolazione locale di lingua tedesca) e deportati ai campi di sterminio nazisti.
    Come si può conciliare la celebrazione permanente del personaggio citato con una vera cultura della memoria, soprattutto riguardo alla Shoah?

    Devo dire che non conoscevo questa storia e mi lascia tendenzialmente basito.
    Purtroppo, si va ad aggiungere ad una miriade di storie di strumentalizzazione e oblio del passato. Il vero problema non è solamente quello della mancata condanna del collaborazionismo fascista o nazista ma innanzitutto l’ingiustizia ripetuta e ricorrente, che forme di rimozione collettiva perpetrano contro le vittime. Nella Germania dell’Ovest furono tantissime le storie di “vecchi combattenti” nazisti rientrati e reinseritisi professionalmente nelle industrie di stato, nella stampa, nella politica, in un momento storico in cui i membri della resistenza o i vecchi dissidenti del sistema nazista venivano spiati e controllati dal governo, e mi riferisco agli anni ’50 e ’60, anche se non dovremmo dimenticare che fino ancora al 1992 in ogni governo della Bundesrepublik vi era stato almeno un iscritto al partito nazista.
    Quello che però accadde con il 1989 e la riunificazione fu che il passato tornò a bussare alla porta del presente e l’evidenza della dimensione dei crimini, del peso del collaborazionismo e della chiarezza dell’impianto criminale del nazismo iniziò a generare un bisogno di cesura definitivo, senza remore o sfumature. Il 1989 è la stata la grande occasione per la Bundesrepublik di riabilitare in maniera irreversibile la centralità delle vittime e la condanna del collaborazionismo e del filonazismo. Certo come vediamo, questo non è un antidoto al ritorno di certe tendenze politiche ma genera un messaggio chiaro e i limiti dentro cui il discorso politico si definisce e si deve e può limitare.

    Tommaso Speccher, dopo il dottorato in Filosofia alla Freie Universität di Berlino, ha insegnato in qualità di libero docente presso le università di Verona, Berlino e Friburgo.
    Attualmente lavora come divulgatore, traduttore e ricercatore presso alcune istituzioni museali berlinesi tra cui il Museo ebraico, la Topografia del terrore e La Casa della conferenza di Wannsee.
    Tra le sue pubblicazioni, Täter und Opfer. Verbrechen und Stigma im europäisch-jüdischen Kontext (a cura di, con C.S. Dorchain, Königshausen und Neumann 2014) e Die Darstellung des Holocausts in Italien und Deutschland. Erinnerungsarchitektur, Politischer Diskurs und Ethik (Transcript 2016) (dal sito Editori GFL Laterza).
    Vive a Berlino da 16 anni, città nella quale ha fondato assieme a Karin Gambaracci Berlincolor, e poi theberlinest.com agenzia turistica e culturale che si occupa di accompagnare gruppi alla scoperta non solo di luoghi e monumenti della capitale tedesca, ma anche del loro significato storico e sociale.

    (© Luca Marcon - tutti i diritti riservati. Gli altri articoli dell'autore sono reperibili qui)