Morti parallele
Due storie piene di violenza e disperazione si concludono quasi contemporaneamente.
In Olanda una ragazza di 17 anni, vittima di ripetuti stupri in giovanissima età, afflitta per questo da una serie di gravissime patologie psicologiche, decide di lasciarsi morire portando agli estremi limiti quell'anoressia dalla quale non era riuscita ad uscire.
In Italia, in un centro dove sono rinchiusi coloro che attendono di essere espulsi dal paese, un ragazzo nigeriano, forse solo di qualche anno maggiore della ragazza olandese, si toglie la vita, approfittando dell'assenza dei compagni di detenzione. Era arrivato in Italia compiendo il solito viaggio della speranza e della disperazione, costellato da un'infinità di soprusi e di violenze che avevano compromesso, in modo grave, il suo equilibrio psichico.
Due giovani esistenze segnate in modo evidentemente irreparabile, almeno a giudizio dei due protagonisti, ma che si spengono con un'eco assai diversa.
Della morte del giovane Harry, frettolosamente sepolto, non si saprebbe probabilmente nulla se non vi fosse stata la protesta, alta e forte, di una delle associazioni che si occupano di assistere in qualche modo gli immigrati. La notizia riesce dunque a varcare i cancelli del centro di detenzione ed arriva ad occupare per un attimo un piccolo spazio anche sulla stampa altoatesina. Harry era stato infatti, mesi or sono, il protagonista di un'aggressione, ad un' operatrice sociale. Non ripercorreremo tutta la vicenda che Sarah Franzosini ha riassunto in modo più che completo in questo articolo su Salto. Basterà dire che il ragazzo, esaminato da diversi medici, è concordemente indicato come gravemente affetto da patologie psicologiche, da un ritardo mentale ed affettivo. Un bambino di cinque anni nel corpo di un adolescente, confuso, aggressivo, incattivito. La soluzione: chiuderlo tra quattro mura in attesa di riportarlo, ammesso che ciò possa mai avvenire, da dove era partito. Un percorso la cui conclusione, quasi inevitabile verrebbe da dire, è la decisione di togliersi la vita. La notizia trova un'eco quasi inesistente sulla stampa. Poche righe per archiviare in tutta fretta un caso scomodo.
Tutt'altro trattamento, ma non migliore sicuramente, quello riservato al corpo ormai privo di vita della giovane Noa. Ben prima di lasciarsi morire era un volto noto, soprattutto nel suo paese. Aveva raccontato le proprie disgrazie sui social media ed aveva firmato persino un libro venduto e premiato. Un successo che non era bastato, evidentemente, a suturare le profonde ferite dell'anima che le violenze subite quando aveva appena undici anni le avevano inflitto. Così, anche, non erano servite le cure, i ricoveri, l'alimentazione forzata, l'avere comunque attorno l'affetto di una famiglia e degli amici. Noa chiede, in base alla legge olandese, di poter accedere al programma che consente l'eutanasia a partire dal dodicesimo anno di età, ma la richiesta viene respinta. Per ripresentarla dovrebbe attendere i ventun anni. Un'attesa troppo lunga. Noa decide così di lasciarsi morire.
È a questo punto che la sua storia diventa preda di universo mediatico nel quale ormai i criteri della deontologia giornalistica sono divenuti carta straccia. La notizia della morte di Noa si affaccia, senza enorme rilievo, sui media olandesi. La ragazza è stata pur sempre un personaggio pubblico, ma la notizia riporta abbastanza correttamente i termini della questione. Nessuno parla di eutanasia legale.
Perché la catena di montaggio della fabbrica di falsità si metta in moto occorre che quella notiziola venga pescata da un'agenzia di dubbia fama, approdi in Inghilterra sul sito di un giornale dall'illustre passato ma dal presente alquanto contestabile per poi dilagare in tutto il mondo. Ci sono voluti alcuni giorni ma ormai la catena attraverso la quale si è giunti a fabbricare una verità alternativa è abbastanza chiara. Inutile anche in questo caso ripercorrere tutta la storia. È ricostruita abbastanza bene qui, qui e qui.
Le considerazioni che si possono fare analizzando l'intreccio tra le due vicende sono molte. Due di esse mi paiono di particolare interesse. La prima riguarda i meccanismi ormai collaudati di un sistema informativo capace, a livello planetario, di stravolgere la realtà pur di confezionare un prodotto appetibile per un pubblico ormai drogato da una rincorsa senza fine alle notizie più clamorose e seduttive.
È evidente, infatti, che il modo con cui media olandesi avevano dato conto della morte della diciassettenne, permetteva abbondantemente di accorgersi che in questo caso il parlare di eutanasia era del tutto fuori luogo. Solo che quella notizia, che nel paese di tulipani aveva avuto una modesta risonanza solo perché la disgraziata protagonista era in qualche modo divenuto un personaggio pubblico, non si prestava certo ad essere "sparata" per un pubblico planetario. Occorreva, per farlo, agganciarla alla contestatissima legge olandese che consente anche un dodicenne di chiedere l'eutanasia. Così, a partire dai siti inglesi per approdare a quelli di mezzo mondo ed infine a quelli italiani il meccanismo della falsificazione ha fatto in modo che il messaggio cambiasse radicalmente. Non più la storia di una ragazza segnata dalla violenza e dalla disperazione, alla quale comunque era stato rifiutato il ricorso all'eutanasia legale, ma quella di una giovane condannata a morte da un sistema barbaro ed iniquo. Sulla povera Noa, sui suoi genitori, sui medici che (forse) le hanno alleviato le sofferenze degli ultimi giorni, sull'intera società civile olandese si sono abbattuti gli anatemi di predicatori di ogni sorta. Una tempesta mediatica che non si è placata neppure quando è stato chiaro che la notizia originale di cui tutti discettavano era gravemente distorta se non del tutto falsa. Non ci si è fermati neppure quando qualcuno ha fatto notare che, quando ha deciso di non lottare più per sopravvivere, Noa era perfettamente in grado di intendere e di volere e che quindi, anche se fosse vissuta in Italia, nessuno avrebbe potuto opporsi con la violenza e la costrizione alla sua tragica decisione.
È curioso che coloro che sostengono, ringhiando, il dovere di far sopravvivere ad ogni costo quella ragazza che di vivere non aveva più volontà, non abbiano speso parole per il povero Harry, morto suicida perché abbandonato da tutto e da tutti, respinto a forza, nel giubilo generale, da un paese nel quale aveva sperato di trovare il modo di vivere una vita diversa e magari anche quello di sconfiggere i fantasmi che gli si agitavano nella mente.
Una ragazza straziata dalla violenza quando era ancora una bambina e un ragazzo che bambino era rimasto, nella sua mente malata, per sfuggire all'orrore dei maltrattamenti subiti. Se la morte dell'una è, come qualcuno ha proclamato, una sconfitta per la nostra società, viene da chiedersi cosa significhi, se qualcosa significa, per tutti noi, la morte dell'altro.