Honduras, l'arte contro la dittatura
Prima di salutarci, Melissa Cardoza, all'indomani dell'incontro pubblico che si è tenuto a Bolzano il 3 luglio, alla Biblioteca del mondo, mi prega di sottolinea queste sue parole, nell'intervista con salto.bz: "Credo nella solidarietà, e mi rende felice sapere che ci siano persone che pensano all'umanità intera, e non solo a chi vive nella loro città, che abbiano un legame di rispetto ed amore con l'Honduras. Questo dà valore a ciò che sto facendo: sento che ne vale, politicamente e per consolidare relazioni umane. Siamo 'gente di Berta', in tutto il mondo".
Berta è Berta Caceres, leader indigena hondureña, amica di Bolzano (era state cinque volte nel capoluogo altoatesino), assassinata nella notte tra il 2 e il 3 marzo 2016 nella sua casa.
Grazie all'impegno dell'associazione Collettivo Italia Centro America, che ha sede in Alto Adige, il COPINH - l'organizzazione coordinata da Caceres - aveva ricevuto il sostegno di tante organizzazioni attive sul territorio provinciale.
Melissa Cardoza, artista, attivista, femminista, era molto legata a Berta. E a lei ha dedicato il tour italiano di presentazione del libro "I 13 colori della resistenza. Storie di donne dall'Honduras" (è in vendita alla Biblioteca del mondo), che in alcune tappe l'ha vista duettare anche con l'amica cantante Karla Lara (che però era già partita dall'Italia in occasione dell'evento di Bolzano).
salto.bz: Com'è nata, in te, la convinzione di poter far politica attraverso l'arte?
Melissa Cardoza: Sono cresciuta con un padre comunista, Joaquin, e avevo accesso a molti libri. Lui ricercava testi che portassero un messaggio di coscienza, ma adatti a bambini e bambine. Non c'erano principesse, ma giovani protagonisti che lottavano nella proprie comunità, o che venivano da famiglie in povertà. Una letteratura legata alla lotta politica. In tutto il Centro America, poi, siamo rimasti colpiti dalla rivoluzione sandinista, che ha fatto capire come la musica fosse uno strumeto di mobilitazione e di presa di coscienza, ma anche di speranza, per chi stava lottando contro la dittatura. Intorno ai 25 anni (oggi Melissa ne ha 51, ndr) ho iniziato a scrivere con più continuità. In quel momento mi resi conto che per la lotta femminista la letteratura era una forma di partecipazione e un contributo ai processi in corso. Compresi che avrei potuto relazionare l'uso della parole, l'arte, a quel movimento.
Com'è nato il lavoro in coppia con Karla?
Avremmo potuto presentare il libro e la situazione in Honduras con delle conferenze, magari noiose. Ma noi siamo artiste, e facciamo le cose in modo diverso. Iniziammo a pensare a una performance in coppia, in Honduras. Ovviamente, se una scrittrice e una cantautrice si uniscono, una legge, l'altra canta. Però volevamo realizzare qualcosa di più creativo, e così abbiamo coinvolto un'amica, una regista teatrale, Inma Lopez. Conversando con lei, iniziammo a memorizzare alcune parti del libro, e a metterle in scena. Ci siamo rese conto che ci piaceva, e anche che aveva molta forza. Il primo tour lo abbiamo fatto lo scorso anno negli Stati Uniti. Ci rendemmo conto che funzionava molto bene, e il pubblico era sorpreso. Dicevamo tantissime cose, ma in modo diverso.
Per fortuna, il popolo hondureño è forte, non ha smesso di resistere.
Che cosa c'è da raccontare? Che cosa succede in Honduras?
La data del colpo di Stato, il 28 giugno 2009, è uno spartiacqua nella storia del Paese, e anche per noi artisti. Molti entrarono nella resistenza. Sono nate lì le storie che diventano letteratura nel mio libro: sono vicenda che ho raccolto per strada, durante le mobilitazioni, le occupazione, i presidi nelle strade, cose che ho vissuto direttamente o che mi hanno raccontato.
Vivevo storie sorprendenti, che non potevo non raccontare. Resto sempre una scrittrice, e quindi osservo la realtà dei fatti e trovo sempre particolari sorprendenti. La scrittura, però, è venuta dopo: andai in Costa Rica, per partecipare ad un seminario, dove discutevamo di politica e movimenti sociali. Al termine, mi chiesero un testo, dove essere un saggio ma io proposi loro un racconto, di scrivere testi che riflettevano molte scene di lotta di strada. Non è stato difficile recuperare quei racconti. Mi considero una narratrice sociale: quando scrivo, lo faccio in particolare perché le donne si vedano, leggano nelle mie parole la loro forza, la creatività, la solidarietà di cui sono capaci, affinché vedano un'immagine bella di se stesse. Allo stesso tempo, voglio che quando i miei testi capitano in mano a lettori stranieri, questi non vedano solo un Paese jodido, fottuto, povero. Se è povero, è perché lo hanno fatto impoverire. Serve un'altra narrativa, che dignifichi la persona. Non scrivo per rafforzare i pregiudizi.
La tua amica Berta Caceres era una delle voci più autorevoli tra quanti denunciavano i meccanismi d'impoverimento del popolo hondureño. Ti aspettavi che venisse uccisa?
Il colpo è stato durissimo. E lo dico per tutte noi, attiviste, hondureñe, donne. In principio c'è stato solo un dolore, molto grande. Berta lo ripeteva: "Mi uccideranno". Era minacciata. Quando lo diceva, sminuivamo le sue parole.
Era un personaggio pubblico, desideravamo e pensavamo che non lo avrebbero fatto. Quando la uccidono, così, c'è anche una reazione di stupore, e una rabbia infinita. Ci siamo sentiti tutti orfani. Aveva una capacità straordinaria, quella di tenere insieme gli orizzonti di lotta: indigena, ambientalista, femminista, antirazzista.
È molto difficile superare ciò che è successo: anche se ci sono altri leader importanti, come Miriam Miranda di OFRANEH, nessuno ha la sua dimensione.
Per questo, oggi chiediamo giustizia per il suo omicidio. Ed esigiamo la cancellazione del progetto idroelettrico Agua Zarca. Chiediamo giustizia per lei. Ma l'assenza è brutale. Mi manca molto. Continuamente, mi rendo conto, faccio riferimento a lei, a ciò che ha detto. A lei ed al suo spirito, che lottava senza rabbia, con allegria, vitalità.
Voglio che quando i miei testi capitano in mano a lettori stranieri, questi non vedano solo un Paese jodido, fottuto, povero.
Sette mesi fa (novembre 2017) ci sono state nuove elezioni presidenziali. Si sono risolte in un secondo golpe, con la conferma di Juan Orlando Hernandez alla guida del Paese. C'è speranza, per l'Honduras?
La classe politica è sempre stata un manipolo di banditi, schiavi agli interessi nordamericani. Oggi, però, si dimostrano anche assassini, capaci di cose terribili, di un cinismo impressionante.
È il segno di questo tempo, e ne vedo tanto anche in Europa. Ormai non hanno più paura di essere giudicati corrotti e ladri. Per fortuna, il popolo hondureño è forte, non ha smesso di resistere. Ho in progetto di raccontare le lotte territoriali in corso. Sono la manifestazione per me più interessante, ciò che resta della sollevazione popolare dei mesi di novembre e dicembre, subito dopo il golpe. Una speranza importante viene dal movimento studentesco, che ha avuto la capacità di usare una grammatica politica molto ampia, includendo ad esempio le rivendicazioni indigene e quelle femministe.
Purtroppo, Stati Uniti ed Unione Europea hanno riconosciuto il regime, che quindi si sente legittimato, più forte. Il grado di violenza terribile. C'è la pretesa dell'impunità.
Nel gennaio del 2017 la Ong Global Witness ha dedicato un report all'Honduras, definito "the deadliest country in the world for environmental activism", il Paese più pericoloso al mondo per i difensori della terra e dei diritti umani.