Concedo la sconfitta, non i principi
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Un’ultima cartolina propriamente elettorale con qualche impressione dal campus della Howard University, dove Kamala Harris ha tenuto il discorso finale della sua campagna elettorale, concedendo formalmente di aver perso le elezioni.
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Gli studenti del college afroamericano e tutti quelli che sono venuti a sentirla avrebbero voluto sentire un altro discorso - ma questo è quello che la vicepresidente deve fare: ammettere la sconfitta, ringraziare famiglia e amici, aggiungendo al tutto messaggi di speranza. Il discorso è questo, senza troppe sorprese. Anche se il discorso è puntellato da molti applausi l’atmosfera generale è quella della rassegnazione. La vicepresidente è visibilmente provata ma chiede comunque ottimismo. Molti occhi umidi tra la folla, tanti abbracci tra ragazzi e ragazze in lacrime. Kamala li esorta a continuare a fare cose buone perché è proprio nel momento più buio che si vedono le stelle - e se ci aspetta una lunga notte la luce di quelle stelle sarà indispensabile. Concedo la sconfitta, dice, ma non significa negare i valori che hanno alimentato la mi campagna elettorale, fra tutti la democrazia.
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Quest’ultimo tema è stato sempre molto presente nella campagna elettorale della vicepresidente, e torna anche stasera. Ma sembra che gli elettori pensavano di più al costo della vita che alla salute della democrazia americana. Anche il tassista che mi porta a Howard University mi nomina l’inflazione come prima ragione per aver dato il voto a Trump, che ritiene una persona che non ci sta molto con la testa - Kamala è una persona perbene, dice, ma per abbassare i prezzi i democratici non hanno fatto nulla. Inutile parlare di come gli Stati Uniti abbiano evitato una pesante recessione grazie alla Bidenomics: gli effetti di milioni di dollari di investimenti si vedranno tra qualche anno, è adesso che il problema è evidente, e Trump ha promesso di affrontarlo - il tassista non riesce ad indicarmi una misura concreta, ma sembra che gli basti la promessa. Con un forte accento caraibico aggiunge poi che i repubblicani difendono valori cristiani tradizionali; gli chiedo se un individuo senza nessuna fede o credo (se non il proprio interesse personale) può davvero difendere certi valori, e lui candidamente ammette di no, ma che le persone intorno a lui faranno in modo di tenerlo a bada. I numeri forse non mentono: mi sono imbattuta uno dei tanti elettori maschi di colore che, statisticamente, hanno aumentato il loro consenso per Trump.
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Ripenso a questa conversazione mentre alla fine del discorso di Kamala gli studenti di Howard vengono inseguiti da decine di giornalisti stranieri per le domande di rito: come ti senti, come si va avanti, come ti spieghi questa sconfitta. Kamala aveva appena ripetuto, per l’ultima volta in questa tornata elettorale, when we fight we win, quando si lotta si vince, aggiungendo però che a volte, per arrivare alla vittoria, ci vuole un sacco di tempo. Bisogna anche però sapere cosa si vuole sconfiggere: una vittoria così schiacciante per Trump dovrà indicare una nuova strada al partito Democratico che non passi dalla demonizzazione dei suoi elettori, che in questa tornata sono diventati un blocco multicolore eterogeneo. Adesso però, per queste ragazze e questi ragazzi, in questo luogo così legato alla storia afroamericana dell’America, sono indispensabili le parole della pima donna di colore candidata alla presidenza: “Dico a tutti quelli che ci stanno seguendo: non disperate. Non è il momento di arrendersi. È il momento di rimboccarsi le maniche. Non credete a nessuno che vi dice che qualcosa non si può fare perché non è mai stata fatta prima.”
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