Vergogna!

Il giorno che i fratelli Rosselli furono assassinati, la moglie di Carlo, Marion Cave, convocò i suoi figli (tra i quali Amelia, la grande poetessa morta suicida nel 1996) al letto dove giaceva distrutta dal dolore e disse loro: "Sapete cosa vuol dire 'assassinio'?".
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Sappiamo cosa vuol dire 'assassinio', o preferiamo parole più neutre, come 'effetti collaterali', 'incidente"' 'tragedia'?

Una notiza, battuta da diverse agenzie, mi ha colpito nella rassegna stampa estera di questa mattina. L'ho trovata poi ripresa nei siti dei quotidiani maggiori (un po' defilata, in verità) in questi toni: "Afghanistan, raid aereo Nato: morti 11 bimbi" (titolo del Corriere della Sera); "Almeno 10 bambini e due donne sarebbero rimasti uccisi in un raid aereo condotto dalle forze Nato nell'est dell'Afghanistan" (Repubblica); "Afghanistan, 11 bimbi uccisi in un raid aereo della Nato" (La Stampa). Da notare l'uso della forma passiva o dei participi passati: morti, rimasti uccisi, uccisi. La forma passiva, si sa, è un buon modo per eludere il soggetto. L'assassino.

Il grande teorico formalista russo Viktor Šklovksij, nel saggio L’arte come procedimento, parla del compito dell’arte: quello di deautomatizzare la nostra percezione della realtà, di farci vedere con occhi nuovi quello che rischia di passare inosservato; e per meglio farsi capire cita un passo dall’articolo Vergogna!, nel quale Lev Tolstoj prende posizione sulla diffusa pratica della 'fustigazione':

perché denudare, gettare a terra e colpire sulla schiena con le verghe chi ha infranto la legge, perché scudisciare ancora sulle natiche denudate? Perché ricorrere a questo metodo stupido e barbaro piuttosto che a un altro, per causare dolore a un uomo? Per esempio, perché non gli si conficcano degli aghi nelle spalle o in un’altra parte del corpo, perché non gli si serrano in ceppi le mani o i piedi, o non si inventa qualche altro sistema analogo? (in "I Formalisti russi", a cura di Tz. Todorov, Torino, Einaudi, 1968, p. 83)

Commenta così questo passo Paolo Nori nel discorso Un mondo di esperti (in La meravigliosa utilità del filo a piombo, Marcos y Marcos, 2011, pp. 39-40):

Tolstoj in questo passo descrive una cosa molto comune in Russia, alla sua epoca. Denudare degli uomini, gettarli a terra, e colpirli sulla schiena con le verghe, e poi colpirli sulle natiche nude, corrispondeva alla pratica della fustigazione. Se Tolstoj avesse detto Perché fustigare degli uomini? tutti avrebbero capito di cosa si trattava, ma la fustigazione, la cosa in sé, sarebbe passata davanti ai lettori come imballata [...] Rallentando il riconoscimento, allungando la visione, sperperando delle energie, anziché risparmiarne, buttando lì degli uomini denudati, gettati a terra, colpiti sulla schiena con le verghe e poi colpiti sulle natiche nude, Tolstoj risuscita, nei suoi lettori, la fustigazione, glie la rende sensibile, glie la fa vedere come se fosse nuova, glie la toglie dall'imballaggio [...]

A me sembra, tante notizie, come quella dei bambini (tra uno e sette anni, secondo il Corriere; tra uno e dodici anni, secondo Repubblica), ci arrivano così, imballate: dall'abitudine (le contiamo più, le vittime civili dei conflitti in atto?), da quei verbi alla forma passiva o al participio passato, dalle formule rituali, dalla distanza geografica...

Dovremmo invece rallentare il riconoscimento, allungare la visione, sperperare energie linguistiche, invece di risparmiarne. E  immaginare allora i giochi di quei bambini, definitivamente abbandonati a sé: un orsetto di pezza, un triciclo, una macchinina. Oppure, quando accompagniamo i nostri figli a scuola, pensiamo che metà della classe, da un giorno all'altro, non c'è più, spazzata via dalla faccia della terra. Ancora, guardiamo lo strazio dei piccoli corpi, e il dolore dei genitori, e il tempo che avrebbero potuto vivere e non è più per loro. Pensiamo a dei bambini, o pensiamo a un bambino solo, di due, di cinque, di dieci o dodici anni, e pensiamo a un bambino che muore sotto una bomba, che rimane mutilato saltando su una mina antiuomo, che vive la sua infanzia vedendo quotidianamente la violenza in atto.

Chissà, forse così una notizia come questa, notizie come queste, che ogni giorno vengono battute e finiscono, quando va bene, nei recessi dei siti d'informazione o nei trafiletti interni dei quotidiani, non passerebbero così, di sfuggita, sulle nostre coscienze anestetizzate.