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Società | Vorausgespuckt

Alidad

Possiamo smettere di essere ciò che siamo stati per aprirci alla possibilità di essere anche qualcos'altro?

Incontro Alidad Shiri in uno dei bar di Palais Campofranco, a Bolzano. La sua storia (credo) è nota a tutti, perlomeno a tutti quelli che vivono qui in Alto Adige/Südtirol. Era ancora un bambino quando arrivò tra le nostre montagne, al termine di un viaggio durato ben quattro anni, l'ultimo tratto legato sotto la pancia di un TIR che da Venezia si stava spostando verso l'Austria o la Germania. Adesso sono passati quindici anni da quell'esperienza traumatica. Alidad è un giovane uomo, è riuscito a “integrarsi” (come si suol dire) pienamente da noi, si è anche laureato in filosofia a Trento, e ha pubblicato (anzi: da poco ripubblicato per HarperCollins) un libro che racconta la sua storia: “Via dalla pazza guerra”.

Non solo un profugo eccellente

Incontro Alidad, dicevo, perché la settimana prossima verrà nella scuola dove insegno – la Hannah Arendt – a parlare della sua esperienza davanti a due classi. Non è certo la prima volta che fa una cosa del genere, e non sarà l'ultima. La vicenda della quale è stato protagonista ha molto da insegnare e lui ha acquisito nel tempo gli strumenti più adatti, la competenza e la sensibilità per impartire questo insegnamento. Toccherà sicuramente vari punti interessanti, tra tutti la condizione attuale del suo paese d'origine, l'Afghanistan, che di recente, dopo la ventennale occupazione delle forze militari statunitensi e occidentali, è tornato sotto il dominio dei Talebani, e risponderà alle domande delle studentesse e degli studenti. Tutto logico, tutto giusto. Ma chi è “veramente” Alidad Shiri, al di là del ruolo di “profugo eccellente” e di “testimone” di una storia tragica finita (per lui) bene?

Gabbie buone e gabbie cattive

Discorrendo con lui mi è venuto spontaneo chiedergli se questo suo “marchio” non comincia un po' a stargli stretto, se il modo con il quale noi tendiamo a rapportarci a lui non sia in realtà anche un modo per tenerlo prigioniero del suo passato proprio mentre cerchiamo di ascoltare da lui come ha fatto per emanciparsi da quel passato. Essendo una persona avveduta, la sua riflessione si è già estesa a toccare questo punto. Un essere umano non è mai solo ciò che è stato, o perlomeno non dovrebbe essere percepito così. Insomma: quando smettiamo di essere ciò che siamo stati per aprirci alla possibilità di essere anche qualcos'altro? È così utile, è così fondamentale che Alidad torni di continuo a ripetere ciò che ha vissuto, che venga considerato continuamente un esperto di questioni relative all'immigrazione in generale e della situazione afghana in particolare? Non è, questa, una gabbia “buona” nella quale noi ci aspettiamo che venga rinchiuso sullo sfondo della gabbia “cattiva” dalla quale è riuscito a fuggire?

Sarebbe bello se Alidad ci parlasse di fenicotteri e farfalle

Mi sono immaginato un Alidad più felice potendo parlarci non di viaggi della speranza o della disperazione, di Talebani o di donne coperte dal Burqa. Magari, faccio per dire, sarebbe bello lui potesse raccontarci qualcosa di letteratura o di filosofia (e non solo di quella del suo paese d'origine), di politica locale (ne conosce insospettabili sfumature...), ma anche di fenicotteri, di farfalle, di collezionismo di francobolli, di nuotate in piscina e di ristoranti stellati. Alla fine mi ha detto una cosa che penso anch'io: quando le persone hanno a che fare con me in genere mi trovo – cioè Alidad si trova – davanti a un duplice obbligo, quello di dimostare che io sono un “emigrato buono” o un “emigrato grato”. Ma al di là di questo la condizione di “emigrante” - particpio presente, come se il viaggio fosse ancora in corso, un viaggio perpetuo - è la sua condanna più ostinata, ed essere percepito anche come qualcuno che, molto semplicemente, vive qui e sta qui al pari di tutti gli altri che ci sono nati, è un traguardo che lui stesso deve ancora imparare a porsi, e soprattutto noi (con varie sfumature) dobbiamo ancora imparare ad accettare.