Don Giovanni eroe dell'assurdo
Meriterebbe un racconto a parte la mia avventura per raggiungere Milano e conquistare un ingresso numerato in galleria, per la rappresentazione del Don Giovanni messa in scena domenica 27 marzo al Teatro alla Scala nel particolare allestimento di Robert Carsen (in cartellone fino al prossimo 12 aprile).
La narrazione di quell'esperienza resta per ora un progetto ancora da scrivere.
Condivido invece almeno una traccia dei pensieri e ragionamenti stimolati dalla visione dell'opera, senza avere la pretesa di restituirne una vera e propria recensione.
Per chi di Bolzano e l'Alto Adige vorrebbe andarci, per dire che si può fare, che Milano non è così lontana e il Teatro alla Scala non è una fortezza inespugnabile.
Per me, per trattenere un'emozione che ne contiene almeno cento.
Per chi non è andato e non andrà a vedere l'opera, per suggerire la lettura del capitolo “Il dongiovannismo”, nel saggio di Albert Camus Il mito di Sisifo (ed. Giunti editore SpA/ Bompiani, 2019).
Ed eccoci al Don Giovanni, come eroe dell'assurdo.
Albert Camus, nel suo saggio Il mito di Sisifo, cancellava i facili giudizi sul personaggio principale dell'immensa opera di Mozart. Il Don Giovanni firmato da Robert Carsen, in scena in questi giorni al Teatro alla Scala, si accosta a quella riflessione e riscatta il ruolo di meta-eroe del protagonista dell'opera. Che simbolicamente apre (e chiuderà) il sipario sul dramma teatrale, all'accendersi della musica sulle prime note dell'Ouverture, e che infine all'inferno precipita sì, ma resta irriducibile, incorrotto dalla stessa condanna di fronte alla quale non si ritrae.
Nella scena finale Carsen lascia sprofondare magistralmente nel baratro che ha appena inghiottito Don Giovanni, anche il coro dei suoi accusatori e con loro l'illusione, in cui questi si cullano, di rappresentare la morale vincente.
E poiché siamo noi, con Donna Anna, Don Ottavio, Donna Elvira, Zerlina e Masetto, fino a Leporello e il Commendatore, a costruirci le nostre storie, a voler dare un senso univoco ai nostri amori, a voler metterci dalla parte dei buoni, a condannare facilmente il dissoluto poi punito, siamo noi spettatori a precipitare infine nel dubbio.
Tanto più che la regia di Carsen coinvolge gli spettatori fin dal momento iniziale dell'opera, quando il gesto di Don Giovanni che strappa il sipario rivela un enorme specchio, grande quanto l'intero boccascena, che riflettendo sulla sua superficie nient'altro che l'arco dei palchi e gallerie della sala, confonde magnificamente attore e spettatore.
Nella scia di questa premessa si lasciano leggere anche altre singole scene dell'allestimento -una ripresa del Don Giovanni di Carsen che inaugurò già nel 2011 la stagione della Scala- in cui gli interpreti si spingono oltre il proscenio e in platea, con un risultato forse meno efficace.
Sono accorgimenti altrimenti già visti più volte a teatro. Non stupiscono e non hanno di solito un senso preciso, se non quello di esibire il dialogo con lo spettatore.
Qui a dialogare con le scelte sceniche della regia è la musica.
Individuare da dove proviene il canto, e cercare con lo sguardo, soprattutto per il pubblico lontano in galleria, e con l'orecchio dove si trova l'attore in quei momenti, diventa un ulteriore gioco dentro al gioco meraviglioso del teatro.
Così il Commendatore (Günther Groissböck) appare inatteso, e proferisce il suo 'Sì' all'invito a cena beffardo di Don Giovanni nella XXII scena del secondo atto, addirittura dal Palco Reale.
La direzione musicale dell'Orchestra del Teatro alla Scala, affidata in questa ripresa a Pablo Heras-Casado, non indugia in romanticismi, si combina piuttosto con la lucidità della regia, e mette a nudo persino nei fraseggi e nelle arie più note e amate della partitura, anzitutto le ambiguità dei personaggi.
La figura di Don Ottavio appare così come quella di un eroe anacronistico, la voce del tenore Bernhard Richter, che nel corso dei due atti sembra schiarirsi mano a mano da iniziali incertezze, incorpora una storia romantica a cui volentieri vogliamo credere, ma che allo stesso tempo sappiamo non veritiera. E con lui, le voci degli altri cantanti si distanziano da una narrazione naturalistica univoca, sulla quale peserebbero sempre stereotipi e pregiudizio.
Donna Elvira, cantata da Emily D’Angelo, verso il finale si offre a Don Giovanni, quasi come un ennesimo boccone nella ricca sequenza di portate della sua cena, mentre lo implora ancora una volta di tener fede a un pegno d'amore inesistente per il burlador.
La reticenza di Donna Anna, interpretata da Hanna-Elisabeth Müller, nel concedersi ad Ottavio, procrastinando ripetutamente il felice abbraccio con l'amoroso, non si giustifica solo col lutto per il padre, piuttosto sembra nascondere un inammissibile rimpianto per il seduttore Don Giovanni, impersonato e cantato con sicurezza da Christopher Maltman.
Così come scontatamente ambigui e contraddittori sono i comportamenti di Zerlina (Andrea Carroll) e Masetto (Fabio Capitanucci). Giocoliere tra verità, furbizia e compromesso resta il servitore Leporello, brillantemente interpretato da Alex Esposito.
Il dubbio rimane in fondo il grande protagonista in questa riuscita messa in scena del dramma giocoso, capolavoro di Mozart e Da Ponte.
Paradossalmente la musica che ineguagliabile pervade il teatro e accomuna gli uni e gli altri, cantanti e musicisti dall'una, ascoltatori dall'altra parte, fa il dono a questi ultimi di goderne e restarne ammaliati, senza altre domande, lo spettatore ritrova semplicemente il suo ruolo.
C'è posto, in questo allestimento estremamente raffinato, anche per un omaggio visivo al teatro Settecentesco, di cui l'opera mozartiana è una creatura, nella scena suggestiva del ballo nel finale del primo atto. Con gli interpreti in ricchi costumi d'epoca resi uniformi dal velluto di un unico colore rosso, nella scala pantone tra il fiery e il chinese red. Una scelta che non può che appagare il benefico voyeurismo estetico che caratterizza i frequentatori, assidui o occasionali che siano, del teatro.
Infine, parafrasando le parole "le fotografie mostrano, non dimostrano" del fotografo Ferdinando Scianna, al quale Milano dedica proprio in queste settimane una grande mostra antologica a Palazzo Reale, a pochi passi dalla Scala, si può anche dire che "il teatro non dimostra, mostra soltanto".
Il teatro, insomma, vive di teatro, e noi vogliamo che viva ancora a lungo.