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“Così occupammo la Montedison”

A luglio Merano celebrerà i 50 anni dall'occupazione della fabbrica “Montedison” di Sinigo, nel 1972. Carlo Baldi fu tra gli occupanti - e ce ne racconta la storia.
Manifestazione Merano
Foto: merano70.it

Il racconto inizia dalla storia personale di Carlo Baldi (foto in basso), impiegato della Montedison di Sinigo che il 6 luglio 1972 era al terzo giorno di ferie, in un campeggio sull’Adriatico. Insieme a lui, la moglie e i due figli. La mattina presto arriva in campeggio il padre dell'impiegato a riferire la notizia: la Montedison vuole chiudere la fabbrica e i dipendenti, impiegati ed operai, hanno deciso di occuparla. Tornare a Merano è, dunque, la cosa giusta da fare.

 

salto.bz: Signor Baldi, le vicende dello stabilimento Montedison di Sinigo avvenute negli anni Settanta rappresentano una pagina poco conosciuta, sebbene molto significativa, della storia del Sudtirolo. Come si arrivò , già nel 1972, a ipotizzare una chiusura della fabbrica?

Carlo Baldi: La fabbrica nacque nel ’25-’26 per realizzare fertilizzanti. La politica del fascismo a Merano fu quella di italianizzare la zona, formando un nucleo italiano di lavoratori, provenienti soprattutto dal Veneto. Grandi consumi di concimi chimici non è che ce ne fossero all’epoca, senza l’agricoltura intensiva. Montedison andò gradualmente in crisi a livello italiano, smise di produrre fertilizzanti a Sinigo e aprì un laboratorio di studio su materiali speciali: carbonato di litio e litio metallico, silicio iperpuro per la componentistica elettronica, cristalli di arseniuro e fosfuro di gallio, titanio, plasma... sempre per la componentistica elettronica. Un’attività con più futuro. Fino al 1966 la fabbrica aveva lavorazioni al loro nascere, ma Montedison non aveva molto interesse a promuoverle, e oltretutto in questo settore eravamo già in ritardo rispetto a Inghilterra, Svezia, Giappone, USA e il progresso è così veloce, che se non tiri fuori i quattrini e hai fiducia, non vivi. Nel 1972 la fabbrica arrivò ad avere un miliardo di lire di deficit annuo. Decise di chiudere.

 

C’erano altri stabilimenti nella medesima situazione?

Assieme a Sinigo c’erano altre quattro-cinque fabbriche in giro per l’Italia che Montedison voleva chiudere: a Savona in Liguria, in Toscana e al Sud. Nel 1972 eravamo 220 persone occupate, una quarantina di impiegati, con qualifiche speciali. Un personale fatto quasi tutto di operai di lingua italiana. I tecnici arrivavano anche da fabbriche Montedison in crisi.

Lei dove lavorava?

Io ho lavorato quasi due anni nelle Marche, dopo un colloquio con la Montecatini a Milano, mi dissero che c’era un posto per un tecnico al carbonato di litio. Così arrivai a Merano.

Quando apprese della chiusura?

Io mi trovavo in ferie a Senigallia, avevo già due figli. Mio padre chiamò per dirmi che era stata comunicata ufficialmente da parte di Montedison l’intenzione di chiudere la fabbrica e che ci sarebbe stata una messa in cassa d’integrazione graduale, con il trasferimento delle funzioni tecniche in altre fabbriche Montedison. Siamo stati abbastanza bravi da dire di no: si era formata in quegli anni la consapevolezza di fare un prodotto all’avanguardia, si lavorava di buona lena ed eravamo molto impegnati. Questa coscienza è sfociata in un rifiuto ad abbandonare la fabbrica ed essere spostati da qualche altra parte. Già qualche giorno dopo l’annuncio della chiusura, il 7 luglio, ci fu la decisione di entrare in assemblea permanente e occupare la fabbrica.

 

Come eravate organizzati?

I sindacati in fabbrica erano già entrati da molti anni, sin dalla fondazione. Erano favorevoli a una gestione collaborativa, con una forza operaia da tutelare e pochissimi impiegati, che non si facevano tutelare dal sindacato. Il lavoro per il settore operaio era molto faticoso, c’erano sacchi sulle spalle da trasportare per intenderci. Mentre le funzioni impiegatizie erano pochissime, perciò c’era un dislivello enorme: un piccolo gruppo di impiegati e dirigenti, e poi perlopiù operai. Oltre al nucleo sindacale, nel 1972 c’era chi come me aveva delle idee ma non si era schierato, mentre molti altri miei colleghi si sono politicizzati e hanno chiarito le loro idee.

 

E come procedette l’occupazione?

C’è stata una serie di incontri operai-impiegati, coinvolgimento della politica a Merano. Eravamo coscienti di essere abbastanza isolati, come unica fabbrica italiana della zona, maldigerita dal mondo di lingua tedesca. Siamo stati bravi però da non formare la nostra opposizione per “salvare” una fabbrica italiana, bensì un prodotto che aveva un futuro. Abbiamo cercato la collaborazione di altre strutture operaie in altre fabbriche, contatti politici, assemblee - oltre all’autogestione della fabbrica. Ci erano state date le chiavi, senza toglierci energia elettrica e acqua. Cercavamo di tenere una manutenzione conservativa delle macchine, gestione dei turni del presidio, ventiquattro ore su ventiquattro, controllo del perimetro della fabbrica con personale in portineria e un giro di ronda - c’era stato qualche scoppio in giro, in Alto Adige.

 

 

Quale fu la reazione della politica italiana a Merano?

Da parte della politica italiana meranese c’era interesse a cercare una complicità col sindacato. In fabbrica erano presenti tutti e tre i sindacati confederali, CGIL, CISL e UIL; la CGIL era il più grande. C’era un certo distacco tra il sindacato, presente nell’assemblea permanente, e i partiti. Ciò non toglie che molti di noi militanti la sera prima ci raccogliessimo nella sede del PCI per gestire al meglio questi rapporti. All’epoca Merano era governata dalla DC, ma non ci fu uno scontro forte con le altre forze politiche. C’è da tenere presente che durante l’occupazione arrivarono a Merano forze come Lotta Continua, Potere operaio, alla ricerca di punti dove farsi vivi. Erano più vicine le loro idee di movimento a quella che era la “DC di sinistra”.

Come si conciliò la vostra protesta con la “normale” vita cittadina?

La nostra presenza a Merano era forte, molti compagni facevano attività artistica, realizzando tazebao con figure operaie che lottavano con bandiere al vento. Un certo disturbo della pacifica Merano turistica: sino al novembre del 1972 mettemmo una tenda canadese sulla rampa dell’Azienda di soggiorno, presidiata giorno e notte. Il prefetto di Bolzano aveva ingiunto lo smontaggio della tenda, c’erano cinquanta poliziotti intorno. Fu tolta quando arrivarono le prime notizie positive.

 

E si concluse bene.

Il 15 maggio dell’anno dopo. Nel frattempo la cassa integrazione per gli operai era partita con un paio di mesi di ritardo, nel frattempo eravamo riusciti ad avere un contributo dalla Provincia di Bolzano e Comune di Merano per chi non aveva più stipendio. Noi operai che avevamo costruito l’occupazione fummo chiamati dalla direzione della Montedison per renderci disponibili per un lavoro fuori da qui. “Altrimenti ci dispiace ma siamo costretti a licenziarti”. Dei 40 impiegati a vari livelli, fummo in 9 a resistere, rimanemmo qualche mese in più senza stipendio. Riuscimmo poi ad avere una buona cooperazione con i contadini di Sinigo, che avevano deo problemi. Si era creata una notevole unità, era una cosa straordinaria per Merano e per tutto l’Alto Adige. C’è stato un bel movimento intorno a noi.