Economia | salario minimo

“L'Italia è un paese da riformare”

Mentre l'Europa riesce ad accordarsi sulla definizione di salario minimo, l'Italia soffre di un massiccio gap legislativo. L'intervista al direttore di IPL Stefan Perini.
Perini, Stefan
Foto: Youtube

Lo scorso giugno è stato raggiunto un accordo tra Parlamento europeo, Commissione e Consiglio europeo sul tema del salario minimo. Un passo propedeutico all’emanazione di una direttiva che tutti gli Stati membri dovranno poi recepire ed applicare, tenendo conto delle peculiarità del proprio territorio. Se da diverse parti la notizia è stata accolta con sollievo, perché vista come una decisione europea che il Parlamento italiano fatica a prendere, non sono comunque mancate le polemiche, che lamentano l'ingerenza delle istituzioni UE all'interno della politica domestica. In realtà, la probabile futura direttiva, non punta ad istituire un salario minimo in ogni Stato membro ma si focalizzerà soprattutto soprattutto sul definire cosa sia un salario dignitoso, adatto ovvero a sostenere il costo della vita. Nessuna imposizione quindi, ma una previsione di criteri utili a fissare i requisiti di un lavoro che non abbia le caratteristiche dello sfruttamento.
Ne parliamo con Stefan Perini, Direttore dell'Istituto per la promozione dei lavoratori AFI-IPL. 

Salto.bz: Dottor Perini, dal momento che la direttiva europea di cui si sta discutendo non introdurrà nei fatti una forma di salario minimo generalizzato, possiamo definirla una mera dichiarazione di intenti? 

Stefan Perini: Da tempo in UE si discuteva di questo tema, in un dibattito che vedeva affrontarsi diverse posizioni, da chi voleva introdurre un salario minimo unico a chi invece preferiva stilare dei parametri. Si è andati poi verso questa direzione, con un accordo su un salario dignitoso, commisurato al livello di povertà relativa, con un esplicito riferimento indicativo, individuato al 60% del salario mediano. Bisogna però ricordare che mancano ancora dei passaggi perché la direttiva si concretizzi. 

 

 

Fino a che punto l’Unione Europea potrà entrare nella legislazione nazionale? 

Ci sono sicuramente dei margini di libertà, si è infatti cercato un modo per garantire l’autonomia della contrattazione collettiva, trovando dei criteri di dignità comuni. 

Se la direttiva non venisse applicata quali sarebbero le conseguenze? 

Non è stato ancora previsto un sistema di sanzioni. Bisogna ricordare però che si tratta ancora di una proposta di direttiva, in cui ci si è concentrati sulla parte operativa e sulle possibili applicazioni, cercando di far convivere i vari sistemi vigenti. 

L’Italia non è l’unico paese a non avere un salario minimo, anche Svezia e Austria non lo prevedono.

Ogni Stato ha un’organizzazione differente, bisogna però dire che molto è legato alla forza delle parti sociali. In Svezia vige l’obbligo di iscrizione al sindacato e anche in Austria ci sono le Arbeiterkammer, incaricate di proteggere gli interessi dei lavoratori, alle quali viene devoluta una piccola parte dello stipendio, inoltre, in Austria, è previsto dalla legge che i contratti collettivi siano rivisti ogni anno, adeguandoli all’inflazione. Tali obblighi garantiscono quindi una crescita salariale più equilibrata. 

Quasi sempre i contratti collettivi vengono rinnovati con pesante ritardo, invece della revisione prevista ogni 3 anni, moltissimi settori continuano a lavorare con contratti scaduti ormai da 6/7 anni, con stipendi che perdono potere, che non vengono rinegoziati alla luce delle diverse condizioni economiche

L’Italia garantisce una buona copertura contrattuale? 

Nonostante l’alta percentuale di contrattazione collettiva, che ci colloca tra gli Stati con maggiore copertura (80% dei contratti di lavoro), l’Italia presenta dei fattori peculiari che non hanno permesso una crescita adeguata degli stipendi. Quasi sempre i contratti collettivi vengono rinnovati con pesante ritardo, invece della revisione prevista ogni 3 anni, moltissimi settori continuano a lavorare con contratti scaduti ormai da 6/7 anni, con stipendi che perdono potere, che non vengono rinegoziati alla luce delle diverse condizioni economiche. Ci sono poi categorie che si trovano del tutto prive di copertura, lavoratori precari, autonomi o appartenenti a nuovi mestieri, come i lavori legati ad internet, ai quali in Germania ci si riferisce come Platform economy, o a lavori sorti negli ultimi anni, basti pensare ai rider. Infine c’è il preoccupante fenomeno dei contratti pirata. 

In cosa consistono questi contratti pirata? 

Per le categorie prive di tutela vengono costituiti dei sindacati ad hoc, spesso ad opera degli stessi datori, che firmano dei contratti con condizioni profondamente peggiorative. Il fenomeno è cresciuto molto negli ultimi anni, il CNEL (consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) ha stimato la presenza di circa 700-800 contratti pirata. A volte sono gli stessi bandi pubblici che incentivano tali pratiche, attraverso il requisito del minor prezzo generano dumping salariale e pratiche di sfruttamento. 

Possiamo dire che in Italia c’è un bisogno urgente di riforma? 

Recentemente, l’OCSE ha segnalato che in Italia gli stipendi non salgono da decenni. Il nostro sistema contrattuale non risponde in maniera adeguata alle nuove esigenze lavorative: c'è un’ampia diffusione di contratti precari e la forza dei sindacati è andata scemando negli anni. Inoltre soffriamo di lavoro nero, una piaga tutta italiana che non influisce solo sui salari, ma su tutti gli ambiti lavorativi, dalla previdenza sociale alla sicurezza. Urge quindi un cambiamento. 

 L’UE ha delineato una convivenza tra questi due sistemi, plastica e applicabile alle differenze dei vari Stati membri, concentrandosi sui criteri condivisibili di dignità del lavoro e di lotta allo sfruttamento

Quale sistema, tra salario minimo e contrattazione collettiva, sembra funzionare meglio? 

Risulta difficile fare una classifica, perché i due metodi sono legati al contesto storico e sociale del paese in cui vengono applicati. Proprio per questo l’UE ha delineato una convivenza tra questi due sistemi, plastica e applicabile alle differenze dei vari Stati membri, concentrandosi sui criteri condivisibili di dignità del lavoro e di lotta allo sfruttamento. 

L’accordo raggiunto può segnare l’inizio di una maggiore collaborazione dell’Unione in questo ambito? 

Sicuramente si tratta di un passo importante. Fino a poco tempo fa si parlava solo di standard di produzione, finalmente si guarda anche agli standard retributivi. Un approccio europeo che si occupi delle condizioni di lavoro e di salari adeguati è importante per contribuire a diminuire le disparità e a rafforzare l’unità nell’UE che, tra le varie sfide, deve affrontare anche quella del futuro del mercato del lavoro.