Una storia di ordinaria immigrazione

Una storia in più capitoli di ordinaria immigrazione che è straordinaria solo perché è la mia.
Capitolo 1: L'espatrio
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Una storia di ordinaria immigrazione

 

 

 

1 L'espatrio

Fratta Polesine è un paese agricolo, si trova nel polesine, una bassa striscia di terra stretta tra Adige e Po e per questo spesso inondata. L'ultima grande alluvione è del '51 un anno esatto prima della mia nascita. A quei tempi contava 5000 anime oggi ci abitano poco più di 2000 persone, è terra di emigrazione come la Sicilia, il Bangladesh, la Tunisia il Burkina Fasu, il Perù.

È terra fertile, vi si coltivano barbabietole da zucchero, grano mais e uva, una volta era clinto, il miglior vino del mondo, pesante scuro, denso e per questo ormai quasi scomparso.

Abitavamo in una casa che era un unico stanzone, sul retro un orto e in fondo un fosso dove quando era stagione pescavo rane per arricchire i pasti a base di polenta e poco altro. Mio padre lavorava in un magazzino di cereali e per 8 – 10 ore al giorno caricava camion con sacchi da 50 chili, finito un camion, arrivava il prossimo. A quei tempi non esistevano i moderni muletti, il mulo era lui, giovane, forte e ben piazzato e per questo fregato. Quando al magazzino non c'era lavoro andava con mia madre in campagna con la zappa in spalla e il fiasco di clinto in mano, altre 12 – 14 ore di lavoro e poi finalmente a casa sfiniti. Questa era la vita loro e di tutti gli altri nel Polesine e sarebbe stata anche la mia. Poche feste, tanto lavoro e povertà che talvolta era miseria. Lì la ricostruzione del dopoguerra tardava a venire, anzi non c'era niente da ricostruire il paese uscì dalla guerra come ci era entrato. Solo i rapporti tra la gente erano da ricostruire e infatti in molti se ne andarono, a Milano, a Torino, in tanta mona.

Nell'inverno del 1958 avevo appena cominciato la prima elementare, era freddo e come sempre umido, il freddo penetrava nei vestiti con la nebbia rendendoli inutili. Mia madre la sera infilava sotto le coperte la monega, un telaio di legno con un braciere di metallo in mezzo pieno di braci per scaldare il letto, ma faceva freddo lo stesso.

Quella sera mio fratello ed io eravamo a letto, lui dormiva, io no, cercavo il modo di avvicinarmi alla monega senza scottarmi, quando nostro padre tornò dal lavoro stremato. Si sedette a tavola e per un po' stette in silenzio poi lo ruppe;”anc'oi xe vegnù uno che me gà dito che ghe saria un laoro” aspettò qualche secondo, “a Bolzano”. Attese la risposta di mia madre che non venne. Continuò “cà ghe xe solo laoro e sudore e tanta tanta fadiga e gnanca un franco in più a fine mese, se copemo lavorando e non cambia gnente. Là ghè laoro e schei da ciapare nei cantieri, la paga la pare bona, forse là pole cambiar qualcossa, un futuro el sarà possibie, pu fazie. Cossa te disi?” Solo dopo un po' mia madre gli rispose: “Bolzano? Dove xeo?”. “ È su al nord vicino all'Austria, là i me gà dito che ge xe tanto laoro ben pagà.” E mia madre di rimando con un tono che non dissimulava l'ansia: “ ghe xe i todeschi là no i te coparan miga? Xe mejo ca te resti chi, poaretti ma vivi, varda ca te ghè do fjoi e senza de ti moremo tuti.” “Ma no la guerra è finita da un pezzo, là non ammazzano più nessuno, da qualche anno c'è Demetri, un impresario edile di Fratta che costruisce case e ha bisogno di manovali, già una decina di paesani stanno lavorando per lui. Visto che mi piacciono le macchine mi darebbero la gru da manovrare il guadagno è doppio che qua. Se parto adesso in qualche mese trovo una sistemazione per voi tre e dopo ci stabiliamo lassù. Ma prima voglio vedere com'è, non si sa mai. Mal che vada torno e continueremo come adesso. Campagna, risaia e sacchi da 50 chili.”

Quella notte dormì solo mio fratello e l'indomani l'allegria di nostra madre era scomparsa nascosta da nuvole che le attraversavano gli occhi e di tanto in tanto una goccia di pioggia si staccava da quelle nuvole e le scendeva sulle guance. Mio padre partì la domenica seguente su un camion con altri sette otto avventurieri tutti con le regolamentari valigie di cartone trattenute dallo spago per evitare che scoppiassero, piene com'erano di vestiti, salami e pan biscotto. Nessuno cantava come quando partivano per le risaie del Piemonte. Tutti guardavano avanti e la speranza la tagliavi col coltello. Via, via dalle fatiche, dal puzzo del sudore e dal buio anche di giorno. Via, Via.

Noi dopo i pianti aspettavamo le sue lettere che raccontavano che lavorava 10 ore al giorno com meno fatica su una gru a più di 20 metri d'altezza e costruivano case altissime, anche 5 - 6 piani. Faticavamo ad immaginare case per abitare più alte del campanile della chiesa, più alte della torre dell'acquedotto. Ogni mese un vaglia permetteva a mia madre di saldare vecchi debiti e sfamarci meglio di prima, arrivò anche qualche vestito, per lei che cominciava a vedere la luce in fondo al tunnel e le si alleviava un po' del peso al cuore gli scappava allora anche qualche sorriso vero. Mandava al marito lettere che avevano l'insistenza dei bambini, chiedeva continuamente se stesse cercando una sistemazione per noi una casa o una camera per tutti per stare di nuovo insieme, fa lo stesso se i tedeschi ci avessero ammazzati ma tutti insieme. Aveva paura, pur conoscendo i profondi sentimenti che la legavano al marito, non sarebbe stata la prima vedova bianca abbandonata in paese da un marito che scompare nel nulla lontano.

Per Natale mio padre tornò carico di regali per noi e i parenti, oggetti mai visti, vasi, bicchieri, coperte, giocattoli, fatti diversi, ci mostravano concretamente un mondo altro, differente, esotico ed affascinante ma che ci intimoriva. Avevamo paura dell'ignoto, dello sconosciuto e dei tedeschi che immaginavamo grandi, grossi, tozzi e col casco di ferro fino al collo. Chiedevo a mio padre se a Bolzano si parla tedesco, se i tedeschi erano cattivi se quando andavano in giro camminavano col passo dell'oca. Mi rispondeva che i tedeschi erano come noi e che si parlava italiano.

Ecco lassù si parla italiano e non dialetto rovigotto e questo mi pose sulle spalle un problema per me allora enorme, non sapevo l'italiano, con tutti parlavo in dialetto e non credo che sino ad allora avessi mai detto una sola parola di italiano. In paese c'era un unico bar con la televisione e con mamma andavamo a vedere “Lascia o Raddoppia”, capivo tutto ma non mi rendevo conto che stavano parlando italiano, siccome li capivo voleva dire che parlavano rovigotto. Col tempo l'ansia crebbe e speravo con tutto il cuore che mio padre ci ripensasse e tornasse a casa e mi risolvesse così il dilemma.

Invece arrivò marzo e arrivò anche mio padre col camion sul quale caricammo le nostre poche cose e si partì. Non attraversammo il mare su barchette fatiscenti come si usa oggi ma risalimmo l'Adige su un camion non propriamente nuovo, che sapeva di malta e cemento. Seduti in quattro sull'unico sedilone guardavo un paesaggio familiare fino a Verona, poi le colline e infine le montagne. Ah le montagne con le rocce così verticali che mi facevano girare la testa. Sino ad alloro le avevo viste solo su foto di giornali. I cattivi dicono che nel polesine la roba più alta l'è el luamaro, il letamaio, ed è quasi vero. Cercavo con lo sguardo le cime ma non le vedevo, avevo l'impressione che quelle montagne le cime non le avevano, ogni volta che mi sembrava di vederne una subito dopo mi accorgevo che quella non era la cima ma uno spuntone di roccia la in alto, la cima era ancora più sopra. Più ci avvicinavamo e più le montagne crescevanosia in altezza che di numero. Ma quante ce n'erano 100, 1000 di più impossibile, come fanno a fardele stare? Mi intimorivano e affascinavano allo steso tempo. Ero eccitato, papà mi aveva detto che Bolzano era costruita in mezzo alle montagne, non riuscivo ad immaginarla, stretta fra le rocce ci sarebbe stata la mia nuova casa. “Speriamo che non cascano giù” pensavo. Chiesi a mio padre se ci portava un giorno in cima a una montagna e allo stesso tempo mi domandavo: come? ci sono strade o sentieri o bisogna arrampicarsi con mani e piedi, e se si cade?

Il camion si ferma, in via Bari siamo arrivati, mi guardo attorno, le montagne sono meno inquietanti coperte di boschi verticali. Come fanno a stare su? Mi guardo attorno, case di cinque piani, ora le vedo finalmente, piene di finestre e balconi. Aiuto a scaricare, al quarto piano c'è una stanza in sub affitto per noi. Saranno 10 metri quadrati il letto matrimoniale è subito montato, ci dormiremo in quattro non c'è posto per molto altro, un tavolino e quattro sedie. Il resto della casa, un'altra stanza, cucina e bagno è occupato da una coppia che salutano mia madre e ci guardano non certo felici di avere per casa tutto quel casino. Li osservo, mi sembrano ricchissimi, ben vestiti e mobili moderni tutt'attorno. Guardo dalla finestra, l'altezza mi dà le vertigini. Come se fossi già in cima alla montagna vedo la gente piccola piccola, mi allontano, ho paura di cadere.

Mia madre mi dice di scendere a conoscere altri bambini, le rispondo vagamente di stanchezza e poca voglia. Il terrore di non riuscire a parlare italiano mi inchioda. Mia madre mi ricorda che in un paio di giorni mi porterà alla mia nuova scuola. Vorrei sparire, farmi topolino e nascondermi nel buco più profondo. Come farò se non so l'italiano? Verrò preso in giro? Vorrei tornare a Fratta, piango, mia madre mi consola un poco e con poca efficacia. Torno alla finestra, cerco i tedeschi ma non vedo gente coi caschi di ferro, vedo gente qualunque, piccola, grande vestita bene e poveretti ma di tedeschi neanche l'ombra. Chiedo a mio padre: “dove sono i tedeschi? “La fuori” risponde. “Come si fa a riconoscerli?” “Quando uno parla tedesco allora l'è tedesco se parla italiano o l'è italiano o l'è tedesco” Capito, niente, non ci sono segni esteriori per individuare un pericolosissimo tedesco, tocco il coltellino in fondo alla mia tasca, non si sa mai.