Il clima che stravolge la montagna
L’impatto del cambiamento climatico si fa sentire anche sulla morfologia delle montagne. Ciò che emerge dallo studio Pronounced increase in slope instability linked to global warming: A case study from the eastern European Alps - che ha esaminato tutte le modificazioni dei pendii e le frane avvenute nel bacino del Rio Solda, in Alta Val Venosta, negli ultimi 70 anni - è che l’incremento delle temperature e della velocità dell’avvicendamento dei cicli di gelo e disgelo del permafrost costituisce la maggior minaccia alla stabilità dei pendii nelle quote sopra i 2.500 metri.
Per rendersi conto dei mutamenti all’ambiente di alta montagna i ricercatori del gruppo “River Basin Group” hanno cercato le “cicatrici” nel terreno: confrontando le foto aeree della zona degli anni dal secondo dopoguerra ad oggi, hanno localizzato gli eventi di crollo dei versanti (per lo più sotto forma di caduta massi) e ne hanno notato un deciso aumento a partire dal 2000. L’attuale tendenza al riscaldamento climatico registrata nell’area di studio ha contribuito all’elevazione delle aree di distacco delle rocce di circa 300 m, in gran parte provocata dagli effetti combinati dei cambiamenti termici nella roccia e dello “scongelamento” del permafrost. “Le maggiori temperature portano allo scioglimento del manto nevoso. L’acqua che ne risulta si infiltra nelle rocce e poi quando la temperatura torna a scendere, ghiaccia e provoca il fenomeno detto del 'frost cracking': la dilatazione fisica conduce alla rottura dei massi rocciosi e alla loro caduta”, spiega Francesco Comiti, docente di Gestione dei rischi naturali nelle aree montane all’unibz, autore del paper insieme a Sara Savi e Manfred Strecker dell’Università di Potsdam.
Solo dal 2010 invece sono aumentati gli episodi di colate detritiche (fenomeni intermedi tra frane e piene torrentizie). In questo caso però non si è verificato uno spostamento altitudinale come nel caso dei distaccamenti di roccia, poiché tale fenomeno è principalmente guidato da eventi meteorici estremi, ovvero quelli che superano il 75° percentile della distribuzione dell’intensità e della durata delle precipitazioni in quella zona e a quell’altezza. “Il problema è che l’aumento delle frane ad alte quote crea una maggiore disponibilità di materiale sciolto che può poi essere più facilmente mobilizzato durante episodi di precipitazioni intense”, commenta Savi, “quindi un aumento della franosità a quote elevate può comportare un aumento della pericolosità anche a valle, laddove il nuovo materiale prodotto può essere preso in carico e trasportato dai torrenti durante i temporali”.
La giusta prospettiva
Lo scenario analizzato dallo studio non deve mettere necessariamente in allarme tutte le comunità montane: trattandosi di eventi che interessano le alte quote, spesso i centri abitati, anche di alta montagna, non sono messi direttamente in pericolo da tali processi. Tuttavia molti sentieri ad alta quota sono sempre più frequentati da turisti e sportivi. Questo significa che dobbiamo attenderci - e mitigare- un aumento importante del rischio derivante da colate e crolli ad alta quota. Inoltre, ci sono dei siti nei fondovalle abitati che si trovano allo sbocco di torrenti che raccolgono le colate generate ad alta quota.
“C’è la prova che l’alto bacino del Rio Solda, e specialmente le aree in prossimità dei ghiacciai, hanno sperimentato una significativa diminuzione della stabilità dei pendii a partire dagli anni 2000, da cui si può dedurre un aumento delle cadute di massi e dei flussi di detriti durante la primavera e l’estate, le stagioni in cui il potenziale passaggio di persone è più probabile”, conclude Comiti, “il nostro studio conferma quindi che nelle aree alpine di alta quota si dovrebbe intraprendere una mappatura dei pericoli naturali che tenga conto di scenari diversi o comunque aggiornati rispetto a quelli utilizzati nel passato, visto che il cambiamento climatico ha aumentato il livello generale di pericolo in tali aree”.