Foxcatcher e il lato oscuro del sogno americano
  
  
  Foxcatcher è il film di Bennett Miller - già regista di Capote (2005) e Moneyball (2011) -, che racconta la storia di Mark (Channing Tatum) e David (Mark Ruffalo) Schultz, due campioni olimpici di lotta libera, a Los Angeles nel 1984, e dell’ambiguo rapporto che instaurarono con l’enigmatico e psicologicamente instabile milionario e filantropo John E. du Pont (Steve Carell, in stato di grazia), il quale decise di mettere su una squadra di wrestler per partecipare alle Olimpiadi di Seoul del 1988. È un film sullo sport che in verità parla pochissimo di sport, ma che è piuttosto uno studio su tre uomini e sulla loro improbabile interazione.
La pellicola, che era candidata a cinque premi Oscar ma che incredibilmente non ne ha vinto nessuno, si muove con una sua intensa, eloquente staticità, immersa in una fotografia sospesa sui mezzi toni, quasi come se ci si trovasse sempre al crepuscolo, il momento della giornata in cui si è più vulnerabili all’inquietudine. È un film sulla solitudine e su un’affettività continuamente cercata e mai afferrata, sull’ambizione, sulla differenza di classe, sulla rivalità fraterna, sulla redenzione (irraggiungibile), nonché sul ribaltamento del sogno americano.
Da una parte i fratelli Schultz con le loro station wagon datate, le vecchie palestre semivuote, il cibo in scatola; e dall’altra “Eagle” du Pont, prigioniero dei suoi privilegi, con il suo birdwatching, la sua sala dei trofei, il suo patriottismo dichiarato (ma mai schiavo di retorica), il suo rapporto con una madre tacitamente dominatrice. Due mondi a distanza siderale l’uno dall’altro che vengono catapultati insieme in una spirale oppressiva da cui è impossibile salvarsi, guardati a vista da una regia sobria e solida che insegue ampi spazi in cui viene risucchiato ogni accenno di umanità.
Foxcatcher è anche un film sull’America di Reagan sullo sfondo della corsa al riarmo, sulla necessità personale e collettiva di riportare in auge i valori decaduti dell'american dream, rincorrendo una grandezza che forse non è mai veramente esistita ma a cui si crede ciecamente, come testimonia la frase che a un certo punto il lugubre John du Pont riserva alla madre che non fa che disprezzare il suo amore per il wrestling: “mother, I’m leading men, I’m giving America hope” (madre, io guido gli uomini, do speranza all’America). Speranza che è al contrario, paradossalmente, proprio un’insospettabile sabotatrice di quello sfibrato sogno americano.
Acconsenti per leggere i commenti o per commentare tu stesso. Puoi revocare il tuo consenso in qualsiasi momento.