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Cultura | Famigerati quei quiz

Conoscenze contro competenze

Non è mai corso buon sangue tra i docenti e il sistema di valutazione Invalsi
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
Unterricht
Foto: (c)Pixabay
  • Egregio Direttore,

    non svelo nessun segreto se affermo che non è mai corso buon sangue tra i docenti e il sistema di valutazione Invalsi. Una prima scintilla per illuminare il senso di questi “famigerati quiz con le crocette” la si può trarre dal fatto che – come ci tengono a specificare gli “ideatori” – non certificano le “conoscenze”, ma le “competenze”: concetto fumoso (nessuno, nemmeno chi le ha inventate, è ancora riuscito a definirle in modo esatto), ma che, per andare all’osso, non può trattarsi d’altro che di quella che un tempo veniva chiamava “capacità critica”, un’abilità così indissolubilmente legata al processo di apprendimento delle conoscenze che non si capisce come possa essere valutata al netto di queste.

    Per capire l’arcano bisogna tornare alla fine del secolo scorso, quando i danni inferti all’istituzione scolastica dal ’68 divennero così palesi che non fu più possibile dissimularli. Fra i tanti guru accorsi al capezzale, uno in particolare, Edgar Morin si impose al punto che il suo “La testa ben fatta” (1999), tempo una stagione, prese nell’immaginario socio-pedagogico degli “esperti” il posto che, nel trentennio precedente, aveva avuto la “Lettera a una professoressa” di don Milani. L’esiguità del testo (130 paginette) non deve ingannare: basta leggere il sottotitolo per capirne il portato palingenico: “Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero”. Sbagliò diagnosi: non si trattava di teste infarcite di conoscenze prive di “regole selettive e organizzative che ne dessero il senso”, ma di teste manchevoli di entrambe: un carente impegno nello studio (questa era, ed è ancora, la vera tabe dell’istruzione occidentale) non poteva che riflettersi su entrambi i fattori: scarsa assimilazione di conoscenze, scarso sviluppo di competenze critiche. 

    Come era successo a don Milani, anche Morin, se non proprio tradito, è stato senz’altro male interpretato dai suoi fanatici ammiratori. La considerazione in cui teneva le competenze si è trasformata in uno svilimento delle conoscenze: il motto che n’è scaturito “meno conoscenze, più competenze” è divenuto un eccellente alibi per giustificare il risparmio di onere lavorativo sia nei discenti che nei docenti. La sua idea di “cultura unificata” (attitudine “olistica” a permeare ogni sapere) si è trasmutata in denigrazione per ogni unitarietà disciplinare fino a promuoverne la sostituzione con un approccio puramente metodologico: non più “programmi”, ma “indicazioni nazionali”, non più “contenuti” da assimilare, ma “competenze” da acquisire, il tutto confezionato in un’orgia di linguaggio ad alta complessità “didattichese” (pullulante di terminologie “anglomanageriali”) sottoposto al controllo degli “esperti”. 

    Le contraddizioni di questa “ideologia” non potevano non manifestarsi nella sua applicazione pratica: i test Invalsi: a parte l’assurda pretesa di oggettività (si legga: “I test Invalsi sono scientificamente solidi? I limiti del modello di Rasch”), il costante e insistente richiamarsi ad essi ha forzato i docenti ad un insegnamento funzionale unicamente al superamento dei test, finendo così per svilirne i contenuti e la qualità del sapere.

    “Quale incredibile presunzione – si chiedeva il compianto professore Giorgio Israel in un suo articolo del 2008 – ha ispirato la visione che occorresse gettare all’aria un’idea di cultura che ha sempre, da quando il mondo conosce se stesso, dimostrato il successo di un rapporto indissolubile tra conoscere e ragionare, in cui ognuno dei due aspetti non può esistere senza l’altro?”. 

    “A una simile pretesa – così si è risposto il professore – possiamo trovare varie spiegazioni. La prima è la democratizzazione delle conoscenze: tutte le teste devono essere ben fatte … Insomma, pur non essendo in partenza uguali, dobbiamo diventarlo e, allo scopo, dobbiamo essere assoggettati ai procedimenti di una pedagogia scientifica che definisce in modo universale e uniforme le competenze da conseguire. Non si tratta di fornire pari opportunità, bensì di conseguire un appiattimento egualitario caratteristico di una visione totalitaria”.

    “L’Europa lo chiede”, spiegano i “tecnici”: dopo il diametro dei piselli e la curvatura dei cetrioli, non sarebbe strano se standardizzassero pure le misure ideali del diplo-laureato medio e dei loro formatori divenuti ormai dei semplici passacarte.

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Simonetta Lucchi Lun, 05/20/2024 - 10:48

Io non ho alcun problema con i test Invalsi. Ritengo il concetto di competenze importantissimo e lo ripeto spesso quando spiego i criteri di valutazione, cosa a cui dedico molto tempo. Purtroppo il problema è uno: io spiego i criteri di valutazione, un altro collega altri. Chi ha ragione? Come fanno docenti e alunni a orientarsi? Le riforme che sono state introdotte nella scuola e anche le direttive europee erano per certi versi veramente illuminanti e il sessantotto non c'entra nulla: sono stati fatti passi enormi da allora. Mi chiedo se si sia capito .

Lun, 05/20/2024 - 10:48 Collegamento permanente