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Il “VUOTO” EMOZIONALE DELL'OBESITA'

“Non chiedo se non la forza di riempire quel vuoto che è in me!”
J.C. Otes (Expensive People Vanguard Press, New York 1968)
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

La vita, essenzialmente, nasce dal riempimento di strutture anatomiche femminili, volto a compensare “vuoti” su vari livelli.                                                                            Le complesse sfaccettature del “vuoto” trovano robusti punti d’appoggio nelle sacche mnestiche del senso comune: le difficoltà che sbarrano l’evoluzione della logica e nel “vuoto” di certe pratiche moderne trovano la loro massima aspirazione.   Anche se l’esempio più calzante del vuoto ci proviene dai detentori della follia. Quelli che, pigiando e pigiando il vuoto, credono di poterlo addizionare all’infinito; stando lì, seduti, dominandosi, senza dire nulla, con l’unica compagnia della ripetizione di "schemi a vuoto", come succhiare senza avere nulla in bocca, parlare senza un interlocutore osservando con i propri occhi il dolore della propria dolorosa esistenza. Ma nell’intimidente vastità della sua interpretazione il vuoto assume molteplici prospettive: la morte di una persona cara che lascia un senso di vuoto; il vuoto del decadimento morale che rimanda al nichilismo; il bambino che nasce diminuendo la “cubatura” del vuoto interiore dei genitori; il vuoto sociale di chi vive in splendida solitudine; l’“astrazione” metafisica che riempie  il vuoto di quella faccia della scienza, ove il fenomeno corporeo e quello psichico dovrebbero sfumare l’uno nell’altro: il vuoto della chimica, che non considera il contesto articolato della materia come composta da atomi isolati;  il vuoto quantistico, come “archivio” di tutte le esperienze naturali  che ci sono, ci sono state e ci saranno.  

Sul lato umanistico la logica del vuoto risulta essere aderente all’ “horror vacui”: le carezze di una madre che appagano illusoriamente l'angoscia e il vuoto esistenziale del figlio; l’inestricabile foresta di inferenze senza senso, giustificazioni, tentativi a vuoto, incesti motivazionali e frustrazioni, derivanti dalla rottura o dal fallimento delle relazioni interpersonali precoci che possono far nascere laceranti sensi di vuoto, di inaffidabilità e inconsistenza personale, vengono molto spesso coperte dalla dolce libidine zuccherina portata ai massimi livelli: assetati cronici del “vuoto”, alcuni soggetti si tramutano in contenitori inquietanti, in feretri che accompagnano un non vissuto (Herrendorf, Czertok), maturano un senso di ingordigia orale che sembra somigliare alla masturbazione compulsiva, nel desiderio incessante dell’ingravidamento buccale sperimentano un senso di panico o di vuoto. In questa prospettiva, il vuoto interiore trova nel cibo l’unica fonte possibile di gratificazione. Il cibo che sembra poter saziare, riempire, coccolare, colmare il vuoto. Il cibo che poi diventa schiavitù, dipendenza, umiliazione, isolamento, lontananza. (Guiducci, Valentina. "Binge Eating Disorder e regolazione affettiva: cibo, emozioni, relazioni (2009). Il cibo che diventa “vuoto”.                                           Il corpo esplode, riempiendosi di oggetti, ciascuno dei quali nell’istante del consumo offre l’estinzione provvisoria del vuoto generando, paradossalmente, un “troppo pieno” che anziché estinguere il vuoto lo genera ancor più intensamente. Il corpo dell’obeso diventa così un troppo pieno che il soggetto però vive come un vuoto infinito (Massimo Recalcati, 2002) La ricerca del cibo rispecchierebbe la ricerca di espedienti che colmino il vuoto lasciato dal bisogno e che consentano di ridurre o attenuare l’ansia acquistando un significato reattivo rispetto alle minacce di perdita (Aveni et al., 1998).    Il comportamento iperfagico, in questo caso, rappresenta il succedaneo più semplice da utilizzare per colmare un vuoto affettivo: da un senso di vuoto interno, di noia alla sensazione di non avere controllo sulla propria vita o dal riempire un vuoto familiare che deriva dall’incapacità o dall’impossibilità di esprimere emozioni e sentimenti.                                                    Quando sentiamo di doverci uniformare per poter essere accettati, quando il divario tra quel che siamo dentro e quel che si aspettano da noi è eccessivo, finiamo per mostrare un volto falso e assumere un ruolo vuoto.

Anche la bulimia è conseguenza di una condizione di vuoto interiore, colmata con la persistente pratica delle orge alimentari che, straripando con il passare del tempo, si fanno sempre più “acerbe”(da gelato normale a gelato con spessa glassatura e via dicendo). Contrariamente le anoressiche e gli anoressici chiamano “vuoto” quel senso di colpa dovuto all’aver fatto qualcosa che non avrebbero dovuto (come mangiare).                                                                                                     Nell’obesità infantile, invece, è importante persuadere i genitori alla corretta alimentazione, ma anche dissuaderli dal concentrare eccessiva attenzione sulla dieta del bambino, procedendo cauti al fine di non permettere che si sviluppi un vuoto emozionale. Molti bambini non ricordano di essere stati mai soddisfatti da un pasto e nella resistenza passiva alla dieta esprimono la loro amarezza in un negativismo che si ritorce contro loro stessi: è il ripicco contro questa orribile vita in cui i vuoti sul piatto sono più importanti di quello che c’è sopra e, magari, con qualcuno che ti sta alle spalle guardando ogni boccone che mandi giù.