Lo sguardo disubbidiente
Lorenzo Pezzani – raccontano le note che ne accennano la biografia – è un giovane professore trentino, architetto e ricercatore, che attualmente riveste il ruolo di Lecturer in Forensic Architecture al Goldsmiths College dell'Università di Londra. La denominazione della disciplina (architettura forense) non è intuitivamente chiara e perciò occorre spiegarla brevemente. L'aggettivo concerne l'attività giudiziaria, indica dunque l'ambito delle norme e della loro possibile violazione. Applicato al sostantivo circoscrive un campo d'indagine innovativo: l'insieme di spazi modificati dai conflitti – in primo luogo militari – indagato mediante la produzione di mappe che rendano perspicui i siti in cui si pratica la violenza. Mappe che dunque saranno esaminate nel quadro del diritto internazionale umanitario. L'architettura forense cerca di misurare e ritrarre il mondo nella discrepanza tra ciò che esso è e ciò che dovrebbe essere. Oppure, si potrebbe anche dire, mostra con gli strumenti tecnologici approntati da una opportuna “cartografia umanitaria” ciò che – pur essendo sotto i nostri occhi – ci viene solitamente occultato.
Il mare che nasconde morti e violazioni
Dal 2011 Pezzani co-dirige un progetto d'inchiesta sulla militarizzazione dei confini e le politiche del Mediterraneo denominato “Forensic Oceonagraphy”. Grazie alla collaborazione con ONG, attivisti, ricercatori, scienziati e giornalisti è stata allestita una piattaforma online (Watch The Med) con una finalità precisa: monitorare le morti e le violazioni dei diritti dei migranti lungo i confini marittimi dell'Unione Europea. Di questo ha parlato giovedì scorso (8 novembre) a Bolzano, presso la galleria ar/ge Kunst di via Museo, essendo stato invitato proprio come “residente” per la quarta edizione del One Year-Long Research Project (2018/2019) ad applicare ed estendere le sue ricerche lungo il confine che unisce il nostro territorio a (o lo separa da) quelli limitrofi.
Un labirinto di ostacoli
Al centro della sua relazione il concetto di “ambiente ostile” (hostile environments), ossia tutto quel complesso di interventi che hanno il compito di rendere un luogo più difficile – se non impossibile – da abitare o anche solo da attraversare. Il riferimento a questo concetto – ha spiegato Pezzani – fu introdotto dalla ex Home Secretary britannica, oggi Prime Minister, Theresa May, la quale, in un'intervista del maggio 2012, annunciò di voler combattere l'immigrazione illegale mediante una serie di norme in grado di negare ai migranti l'accesso a lavoro, alloggi, servizi e conti bancari: “La trasformazione dello spazio legale in un labirinto di ostacoli può rendere invivibile una città, ma il medesimo procedimento si rispecchia globalmente nei modi in cui certi ambienti naturali – mari, deserti, montagne – vengono di fatto utilizzati come dissuasori per scoraggiare o espellere esseri umani, mettendo chiaramente a rischio le loro vite”.
“Quello che mi interessa – ha illustrato Pezzani – è mostrare come la smaterializzazione di un confine fisico molto spesso non significhi affatto la sua cancellazione, quanto piuttosto la sua dislocazione o introiezione all'interno di nuove pratiche sociali d'esclusione. E tutti possiamo diventare guardiani di un confine: un proprietario di un appartamento, un banchiere o persino il titolare di una scuola guida”. Quando un ambiente diventa ostile, però, è possibile anche evidenziarne le barriere grazie ad uno “sguardo disubbidiente”, che metta a fuoco l'intenzione di renderlo esplicitamente inospitale e in un certo senso lo costringa a diventare un testimone.
Se il diritto all'esistenza dei fiori sopravanza quello degli esseri umani
Sono state in particolare due le vicende che Pezzani ha ricordato per esemplificare il senso della sua ricerca documentaria. Quella della barca partita dalla Libia nel marzo del 2011 - si veda il video in calce all'articolo -, sulla quale 72 persone che tentavano di raggiungere l'isola di Lampedusa furono lasciate andare alla deriva per quindici giorni all'interno di un'area marittima in quel periodo sorvegliatissima dalle navi della NATO impegnate in azioni militari (furono solo 9 i migranti a sopravvivere); e quella della cosiddetta giungla di Calais, l'accampamento di rifugiati – quasi 10.000, provenienti dall’Afghanistan, dal Sudan, dalla Siria, dall'Eritrea, dall'Iraq – che dal gennaio del 2015 ad ottobre del 2016 fu teatro di abusi sui diritti umani da parte della polizia contro i migranti: “Pensate, oggi quel luogo è stato recuperato, anzi riqualificato, come si dice in gergo, come riserva naturale ed è stata scoperta persino una pianta autoctona – l'orchidea Liparis loeselii – per simboleggiarne la rinascita”. Caso forse unico in cui il diritto all'esistenza dei fiori (rigorosamente autoctoni) sopravanza quello degli esseri umani (immigrati).
“Dal soggiorno sudtirolese – ha concluso Pezzani – vorrei trarre nuovi stimoli per il mio lavoro e conto sulla collaborazione di tutti: ho sicuramente molto da imparare. Penso che in un luogo come questo l'ostilità di un ambiente possa per esempio esprimersi con l'utilizzo consapevole del freddo, da sempre un potente dissuasore e agente d'esclusione. Non pochi migranti muoiono infatti per ipotermia, sia quelli che aspettano i soccorsi in mare, sia quelli che magari cercano di passare la notte in un vagone vuoto, fermo ad una stazione di frontiera”.