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“Poca matita e molta gomma”

Parla il compositore Marco Mantovani in vista del concerto “doppio” al Festival di musica contemporanea: "Per scrivere ho bisogno di silenzio, solitudine, un pianoforte".
Marco Mantovani
Foto: Federazione Cori dell'Alto Adige

Domani, 16 novembre, il Festival di musica contemporanea propone al Centro Trevi un concerto “doppio”. Nella prima parte Michael Pircher interpreterà pagine per solo tuba, nella seconda Emilio Galante sarà alle prese con composizioni per solo flauto. Tra queste un lavoro di Marco Mantovani, che abbiamo intervistato.

 

Salto.bz: Lei insegna teoria musicale presso il conservatorio di Verona. Una materia che non gode di particolare favore tra i ragazzi. Che sia utile è ovvio, ma può anche essere “bella”?

Marco Mantovani: Inutile negarlo, il solfeggio è una materia ingrata: è lo studio della grammatica della musica e come tale ha lo stesso tasso di “digeribilità” che possono avere, che so, la grammatica latina, francese o italiana. La grande sfida che mi sono sentito di affrontare è cercare di renderla divertente presentandola anche come un gioco, affrontandola con spirito scherzoso e non serioso da accademia ma cercando nello stesso tempo di farne comprendere l’importanza: chi ha buone basi di solfeggio possiede un bagaglio prezioso mentre chi, al contrario, ne ha affrontato lo studio in modo disarticolato o superficiale si troverà sempre in difficoltà specialmente quando capita di suonare assieme agli altri. Per il resto, definire “bella” una disciplina scolastica è impresa non facile.

Comporre è stato un desiderio fin da ragazzo?

Questo sì, posso affermarlo senza ombra di dubbio: è un’esigenza che ho sentito da subito. Appena iniziato lo studio al conservatorio, avevo undici anni, ho cominciato ad “imbrattare” fogli pentagrammati inventandomi addirittura dei “miei” segni grafici perchè non avevo ancora alcuna conoscenza teorica e sono andato avanti per anni evolvendomi con il progredire delle conoscenze ma senza nessuna nozione tecnica di armonia e contrappunto; negli anni successivi non ho mai smesso di scrivere, formandomi essenzialmente da autodidatta fino a quando non ho potuto intraprendere seriamente lo studio della composizione. Ma questo è avvenuto molto tempo dopo, a ventitré anni e dopo aver conseguito il mio primo diploma, in viola. A conti fatti, posso dire che scrivo musica da sempre.

 

Un sentimento che non mi appartiene è la nostalgia.

 

Lei ha studiato anche con Salvatore Sciarrino, uno tra i “grandi” compositori del nostro tempo. Quale è una importante “lezione” che le ha lasciato? Ci sono stati anche momenti buffi o curiosi durante i corsi di Sciarrino?

Sciarrino è uno dei compositori contemporanei che stimo maggiormente per l’originalità di stile: ha svolto per anni un corso di perfezionamento estivo a Città di Castello dove anche io (un’eternità fa) partecipai, seguendo però i corsi di viola e musica da camera tenuti da un altro “grande”, Dino Asciolla. In quell’occasione seguii con grande curiosità il lavoro che Sciarrino svolgeva con gli allievi andando ad ascoltare le loro composizioni ai saggi di fine corso e riproponendomi di partecipare a uno dei suoi corsi non appena ne avessi avuto la possibilità; purtroppo, per via del lavoro in orchestra, ho potuto farlo solo molti anni dopo, acchiappando al volo l’ultimo corso da lui tenuto a Città di Castello. L’insegnamento più prezioso che ho ricavato è lo stimolo a “pensare in grande”, come dice lui, pensando la musica con la massima libertà e senza temere l’impiego di un linguaggio avanzato e “coraggioso”; nonostante la forte tempra drammatica Sciarrino è persona dotata di vivo senso dell’umorismo e per questo volle a tutti i costi ascoltare la registrazione della mia prima fiaba musicale “Il viaggio di Ractùns”, praticamente un “sacrilegio”, nei confronti della quale ebbe invece parole di grande elogio, anche se il linguaggio da me utilizzato in quel lavoro era quanto di più lontano si potesse immaginare dal suo: questo forse è il ricordo più buffo che mi rimane dall’esperienza di quel corso.

Per comporre, ha bisogno del silenzio attorno? Scrive al computer? Oppure seduto al pianoforte?

Chi mi conosce sa che ho sempre sfruttato il dono della bella calligrafia che ho ricevuto per curare le mie partiture in modo quasi maniacale. Pertanto ho scritto per decenni le mie musiche rigorosamente a mano, e di conseguenza sono stato a lungo “allergico” al computer. Mi sono convertito solo pochi anni fa però devo dire la verità: nonostante per molto tempo abbia faticato ad accettare il mezzo informatico ho acquisito in breve tempo una certa abilità nel suo utilizzo per la stampa musicale. Così ho adottato una soluzione di compromesso a mio avviso “ideale”: continuo a scrivere a mano, poi riverso il tutto al computer stampando le parti per gli strumentisti, che in questo modo si trovano davanti un materiale impeccabile; e dal punto di vista del tempo risparmiato, il guadagno è incalcolabile. Per il resto non rinuncio alle mie abitudini, quindi per scrivere ho bisogno di silenzio, solitudine, un pianoforte, “poca matita e molta gomma”, come diceva Renato Dionisi e come adesso io ripeto ai miei allievi.

A proposito del brano “Riavvolgo il nastro dei ricordi”. Quali suoi ricordi trovano forma nei suoni, e come si trasformano ricordi in trame sonore?

Premetto che un sentimento che non mi appartiene è la nostalgia, quindi il titolo di questo pezzo è deliberatamente fuorviante. In realtà, questo titolo sicuramente bizzarro nasconde la chiave per comprendere la struttura del brano: l’immagine che tenevo ben presente era proprio quella dei vecchi nastri magnetici e del suono gutturale e indecifrabile “al contrario” che si percepiva quando venivano riavvolti; la medesima cosa avviene in questo pezzo dove il materiale che costituisce il recitativo di apertura viene trasformato e rielaborato riavvolgendolo al contrario nella sezione conclusiva.

 

Il suono della miniatura che colpisce la palla, della palla che si insacca nella rete: anche quella è musica...

 

Il brano è una commissione del Festival e sarà eseguito in prima assoluta da Emilio Galante. Prima di una esecuzione di un suo brano, preferisce consegnare all’interprete la partitura e lasciargli “mano libera”, e magari meravigliarsi dell’interpretazione, o collaborare con l’esecutore per condividere le scelte interpretative?

In genere gli strumentisti non amano molto essere “assistiti” dal compositore, così preferisco consegnare il brano agli esecutori lasciandogli la libertà di dar vita alla loro personale visione; naturalmente sono sempre a disposizione dell’interprete per delucidazioni che rendano chiare le mie intenzioni in fase di composizione ma non voglio nemmeno privarmi del fattore “sorpresa” nel sentire materializzarsi un’idea musicale che io avevo solo immaginato.

Il suo indirizzo e-mail è davvero curioso …

Naturalmente nasconde una mia vecchia e mai sopita passione, che ai più giovani non dirà probabilmente nulla ma che è invece ben conosciuta dai “bambini con i capelli bianchi” della mia età: il gioco del Subbuteo. Il suono della miniatura che colpisce la palla, della palla che si insacca nella rete: anche quella è musica...

Un auspicio per il prossimo futuro?

In questo momento particolare mi auguro che prosegua questa fase di recupero della “normalità” in modo che chi si guadagna da vivere con la musica possa ritrovare la continuità di un tempo e soprattutto il proprio pubblico.