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Espatriati o immigrati?

Una maggiore attenzione all'uso del nostro linguaggio potrebbe contribuire a mutare la percezione di determinati fenomeni sociali.

I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo, diceva, anzi scriveva Ludwig Wittgenstein nel suo Tractatus Logico Philosophicus (nell'originale: Die Grenzen meiner Sprache bedeuten die Grenzen meiner Welt). Intersecando il tema del linguaggio con quello del mondo si colloca esattamente il problema di come chiamare chi, cambiando luogo di residenza e soprattutto spostandosi  in zone della terra dove si parla un'altra lingua, perde una "patria" senza acquistarne necessariamente un'altra. Qui si può notare un fenomeno interessante e ne dà conto un articolo del giornale britannico The Guardian. Riassumendo: se un europeo (o un nordamericano) emigra diventa un "espatriato". Se a farlo invece è una persona proveniente da quello che genericamente si chiama "il sud del mondo" allora abbiamo a che fare con un "immigrato".

Sia in iglese che in italiano la denotazione attiva conseguenze sul piano della connotazione. Per fare un esempio: saremo certamente più disposti ad affittare un appartamento di nostra proprietà a un espatriato più che a un immigrato, pur non sapendo niente dell'individuo al quale consegneremo di fatto le chiavi. I dizionari in uso, tuttavia, sembrano accogliere questa sfumatura introiettando già al livello della mera denotazione la connotazione negativa che abbiamo evidenziato. Si prenda ad esempio il vocabolario dell'enciclopedia Treccani, che peraltro sussume il termine "espatriato" nella definizione generale del verbo "espatriare":

immigrato: agg. e s. m. (f. -a) [part. pass. di immigrare]. – Che, o chi, si è trasferito in un altro paese: operai i., famiglie i. nel Nord; in senso specifico, riferendosi ai soli spostamenti determinati da dislivelli nelle condizioni economiche dei varî paesi, chi si è stabilito temporaneamente o definitivamente per ragioni di lavoro in un territorio diverso da quello d’origine: i. regolari; i. irregolari (o clandestini), privi di permesso di soggiorno; i. stagionali, quelli che emigrano in un paese straniero sostandovi per brevi periodi, limitatamente alla durata del contratto lavorativo che li lega all’azienda che li ha richiesti.

espatriare (non com. spatriare): v. intr. [dal lat. tardo expatriare, der. di patria «patria», col pref. ex-] (io espàtrio, ecc.; aus. essere, più raram. avere). – Lasciare il territorio della patria (nell’uso burocr. anche per breve tempo, nel linguaggio com. per sempre o per lungo tempo): fu costretto a e. per timore di persecuzioni politiche.

Divenire coscienti di simili sfumature, soprattutto per chi ha a che fare con la comunicazione e l'informazione, potrebbe essere decisivo per mutare sul lungo periodo la percezione di determinati fenomeni sociali.