“L’Italia non vuole sconfiggere questo cancro”
  
  
  “La lotta alla criminalità organizzata è molto difficile, perchè la criminalità è organizzata, ma noi no” (Antonio Amurri, scrittore).
Tiberio Bentivoglio è un imprenditore calabrese che più di vent’anni fa si è ribellato alla ‘ndrangheta reggina che gli chiedeva il pizzo e oggi è un simbolo per tutti quelli che si oppongono all’oppressione della criminalità organizzata. Vive sotto scorta ed è testimone di giustizia dal ’92, nel 2011 gli sparano addosso sei colpi, “alle spalle, perché i mafiosi, al contrario di quanto piace loro affermare, non sono uomini d’onore”, dice Bentivoglio che giovedì prossimo, 19 marzo, ore 18.30, sarà all’Antico Municipio di Bolzano in via dei Portici per raccontare la sua esperienza nell’ambito del progetto “I mille volti della legalità per i 20 anni di Libera contro le mafie”. Bentivoglio ha scritto un libro, “Colpito”, dove racconta il suo calvario. Il volume, che non si trova in libreria, sarà disponibile, anche all’incontro di Bolzano, per chiunque voglia conoscere la sua storia.
Bentivoglio, qual è oggi la sua situazione?
Da quando mi sono ribellato alla ‘ndrangheta sono iniziate una serie di punizioni contro di me, sono stato vittima di attentati, ho subito furti, ci sono stati incendi, bombe, distruzioni di automezzi di lavoro. L’imperativo per me era resistere e poi ripartire, cercare ogni volta più indizi possibili da fornire ai magistrati per poter individuare di volta in volta gli autori di queste azioni. La prima volta che ho fatto una denuncia fu ventitré anni fa, il 18 luglio del 1992, quando andai in caserma per confidarmi con un maresciallo dei carabinieri, da allora ho sempre denunciato qualunque atto illecito nei miei confronti.
Come si è mosso poi l’ingranaggio della giustizia?
Ci sono stati diversi procedimenti, alcune persone da me nominate sono state finalmente condannate per il 416 bis poco più di dieci giorni fa con una sentenza definitiva in Cassazione, ma non sempre si è fatta giustizia, in altri casi i malavitosi condannati in primo grado sono stati poi scarcerati in secondo. Visto che la storia ha un lungo strascico, poi, alcune persone da me denunciate sono già uscite dal carcere e sono ora libere di venire a sfottermi, nel vero senso della parola, davanti alle vetrine del mio negozio che ormai resiste a malapena.
L’attività non si è più ripresa, dunque?
La mia era un’attività fiorente, uno dei negozi di articoli sanitari e per la prima infanzia più importanti della provincia di Reggio Calabria, oggi è fra gli ultimi non solo a causa degli attentati, non solo a causa dello Stato che è arrivato tardi - quando è arrivato - per poter rimpiazzare i prodotti distrutti dalle bombe e dagli incendi, cosa che mi ha fatto perdere molti clienti, ma anche a causa di una società civile che non è abbastanza responsabile. Una persona che denuncia vede crescere un deserto intorno a sé. Non ce l’ho con chi spara e mette le bombe perché quelli sono criminali e fanno i criminali, me la prendo piuttosto con chi deve reagire, isolare i mafiosi e favorire chi denuncia. E questo ancora non succede.
E la paura non allenta la presa.
Purtroppo è così. Dopo tutti questi anni di lavoro è orribile vedere distrutta un’attività, perdere la casa perché Equitalia nel frattempo ha ipotecato ogni bene. Non posso partecipare a nessuna gara di appalto legale come facevo prima, non ho nemmeno un carnet di assegni perché le banche non mi vogliono. Sto rischiando che la mia casa vada all’asta nuovamente da un momento all’altro e, come ho detto in Commissione parlamentare antimafia, sono sicuro che la comprerà qualche mafioso. Il paradosso è questo, ai mafiosi togliamo le ville e i beni e li mettiamo a disposizione per fini sociali, e le case di tutte le vittime di mafia saranno invece comprate dai mafiosi. Le leggi vanno cambiate, sapere che in Italia non esiste per esempio una norma a tutela dei familiari che psicologicamente sono provati da vicende del genere è inconcepibile. I miei figli non ce la fanno più, non hanno più amici, non trovano lavoro dal momento che nessuno assume nelle aziende i figli di chi denuncia e di questo in Italia non si parla mai.
Direbbe che lo Stato si è dimostrato indolente nei suoi confronti, che l’ha aiutata poco?
Quando ho denunciato mi sentivo forte, sentivo di aver fatto il mio dovere e tutt’oggi ritengo, nonostante tutto, che denunciare sia un atto di democrazia e che bisogna farlo sempre e comunque. Ma allo stesso tempo non aiutare le vittime di mafia riconosciute, e siamo migliaia, è la cosa più grave che accade in questo paese. Avevo sette dipendenti e ora ne ho due in part-time e malpagati, fatturavo 2 miliardi di lire l’anno, oggi invece fatturo 120mila euro l'anno, sono stato sfrattato dal negozio e aspetto ogni giorno che mi venga assegnato qualche bene confiscato per cui ho già fatto richiesta. Non so come uscirò da questa storia, ma so che è impossibile continuare a denunciare in un paese che non vuole sconfiggere questo cancro.
Quanto è estesa oggi in Calabria la rete mafiosa?
La criminalità organizzata non è più come una volta in Calabria, il pizzo che chiedono è poco, serve solo ai malavitosi per dire “noi ci siamo, noi comandiamo a casa tua”. Le ‘ndranghete importanti, che oggi sono con i colletti bianchi, sono quelle che hanno seguito l’odore dei soldi fuori dalla Calabria vent’anni fa, quelli che hanno investito nella probabile illegalità al nord e lo stiamo man mano scoprendo. Il vero ‘ndranghetista a Reggio Calabria non è mai esistito, il mafioso è un laureato che se ne va in giro con la borsa di pelle e la penna d’oro nel taschino, è il mafioso che si traveste da magistrato, avvocato, giudice, carabiniere, prete, da tutte le professioni. Ed è lì che dobbiamo cercare il male.
Acconsenti per leggere i commenti o per commentare tu stesso. Puoi revocare il tuo consenso in qualsiasi momento.